Caso Niceta, sentita oggi in aula la parte civile «Voglio difendere il nome della mia famiglia»

«Il nome decoroso di mio padre è stato buttato alle ortiche e sono profondamente seccato per questo. Sono qui per difendere il nome della mia famiglia». Lo dice con fermezza, più volte, Michelangelo Niceta, ma non sa nascondere anche il nervosismo. Parte civile del processo a carico del nipote Angelo Niceta, che deve rispondere di bancarotta fraudolenta, questa mattina è stato sentito in merito alla società di cui era socio insieme al fratello Onofrio – condannato a tre anni in abbreviato per gli stessi fatti contestati al figlio -, vale a dire la Onofrio Niceta snc. Ma chi si aspettava scintille, in un certo senso, in aula si è dovuto accontentare di un clima disteso fatto di pochi picchi a margine. «Io non ho mai gestito né amministrato niente della società – dice subito – ero solo un socio come dire…non effettivo». Non gestiva nulla perché, a sentire il suo racconto, il suo nome serviva solo come garanzia, di tutto il resto si sarebbe occupato il fratello Onofrio, per il quale nutriva fiducia e stima. E il nipote Angelo, che deve rispondere all’accusa di essere un presunto socio di fatto nel fallimento della società.

I loro rapporti iniziano a incrinarsi dopo la prima ispezione di controllo della guardia di finanza nei confronti della società. È il 15 aprile 2005. «Solo poco tempo dopo ho saputo di questi controlli, a ispezione già avvenuta. Nessuno mi aveva informato». È da quel momento che inizia a sospettare che ci sia, dietro la facciata pulita della società, «qualcosa di poco trasparente». «Mio fratello però mi ha sempre rassicurato, ha sempre cercato di tranquillizzarmi. E io mi sono fidato, perché quello era mio fratello, la mia famiglia, e sono cresciuto con questo tipo di insegnamento», dichiara il teste. Al primo controllo dei finanzieri, ne segue però un altro nel novembre dell’anno successivo. A quel punto Michelangelo Niceta tenta di tirarsi fuori. «Ho chiesto ai consulenti di potermene uscire, anche a titolo gratuito, ma da parte di mio fratello ricevevo sempre risposte evasive, mai concrete, puntualmente sviava l’argomento – racconta -. Vengo a conoscenza del decreto ingiuntivo solo a fine dicembre 2011, subito dopo un ricovero a Milano protratto per mesi, mentre al telefono mio fratello mi ripeteva “ti ho fottuto, ti ho fottuto”. Lì ho smesso di avere fiducia. Io non ero a conoscenza di niente, sono accadute cose a mia insaputa».

«Perché non ha controllato?», gli domanda il pm. E la risposta è sempre la stessa: «Perché ho iniziato a preoccuparmi, in parte, solo dopo la visita della finanza del 2005. Non ho mai partecipato all’amministrazione della società – ribadisce di nuovo, rispondendo al suo avvocato di parte civile -, mai imposto nessuna firma su documenti o altro. Ero un socio, sì, ma dentro quell’azienda nessuno mi riconosceva o trattava come un titolare, perché nemmeno la frequentavo». Racconta di non essere mai riuscito a ottenere una riunione dei soci, neppure per intercessione dei commercialisti incaricati, ma diventavano tutti subito evasivi o non si presentavano nemmeno. Era difficile dialogare». E ribadisce con maggiore veemenza: «Io non ci guadagnavo nulla da questa società, avevo solo dato la mia garanzia. Non ho mai preso una lira dall’Onofrio Niceta snc». E sui settemila euro che risultano versati e destinati a lui? «Erano un compenso una tantum per la gestione dei magazzini, che erano miei, in via Manzoni».

Si infiamma, il teste, non appena tocca alla difesa dell’imputato, rappresentata dall’avvocato Ugo Forello, fare le domande. E a mediare è la presidente di corte. «Troppa partecipazione emotiva, lo capisco. È che bastava chiedere scusa e oggi non saremmo qui», dice. Intanto l’avvocato Forello chiede il deposito di due documenti, che mostra anche a Michelangelo Niceta: sono due ricorsi presentati a novembre 2011 in seguito ai controlli precedenti della finanza, ed è su questi che il teste riconosce la propria firma. «Certo che è mia, ma so già dove vuole arrivare l’avvocato», sbotta a un certo punto, in uno sproloquio a volte senza freno in cui arriva a immaginare le domande della controparte e a rispondere in autonomia, visibilmente teso per quella testimonianza che tocca vicende personali e familiari, prima ancora che professionali. Intanto, l’avvocato di parte civile si è riservato di sentire ancora il teste più avanti, dopo la pausa estiva. La prossima udienza è stata infatti fissata per settembre.


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