Sono state depositate questa mattina le oltre 300 pagine con le quali il presidente della quinta sezione penale della Corte d’appello Salvatore Di Vitale spiega la decisione presa a maggio nei confronti dei due militari: «Mancano prove rigorose della loro volontà di aiutare il boss e un valido movente»
Caso Mori-Obinu, le motivazioni dell’assoluzione «Non presero Provenzano per tutelare le indagini»
Le azioni contestate sono «sussistenti» eppure «non idonee a dimostrare» che i due alti ufficiali dei Carabinieri, il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, «abbiano agito con la coscienza e la volontà di favorire il latitante Bernardo Provenzano, impedendone o ostacolandone la cattura». Scrive così il presidente della quinta sezione penale della Corte d’appello di Palermo Salvatore Di Vitale, che questa mattina ha depositato le oltre 300 pagine con cui motiva l’assoluzione dei due militari del Reparto operativo speciale dell’Arma, emessa lo scorso 19 maggio. Una sentenza che si inserisce nel solco del giudizio di primo grado, concluso con la stessa decisione dei giudici. I quali, anche in quel caso, contestavano non tanto i fatti ma l’eventuale movente e il reale interesse dei due imputati ad aiutare il boss.
L’accusa per Mori e Obinu era quella di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e di aver contribuito alla sua mancata cattura a Mezzojuso il 31 ottobre 1995. Ma, secondo il giudice, le decisioni prese quel giorno dai due potrebbero avere anche un’altra lettura ed essere «riconducibili alla scelta attendista» per non compromettere l’arresto del boss con «attività investigative dirette che avrebbero potuto allarmare i destinatari ove scoperte». Nessuna prova, dunque, delle reali intenzioni dei militari, malgrado l’accusa abbia più volte dimostrato che lo stesso Mori si era reso responsabile in precedenza di «analoghe condotte favoreggiatrici nei confronti di altri esponenti di primo piano di Cosa nostra».
A sostegno dell’assoluzione, poi, non solo la puntigliosa analisi delle condotte dei due uomini, ma anche la ricerca di un movente, che finisce per dare esiti negativi. Soprattutto dopo che l’accusa ha deciso di rinunciare a contestare ai due vertici dei carabinieri l’aggravante di aver favorito l’impunità di Provenzano nell’ambito della presunta trattativa Stato-mafia. In questo modo, «il procuratore generale ha implicitamente riconosciuto che il compendio probatorio acquisito al presente giudizio è insufficiente a dimostrare la sussistenza della suddetta trattativa», si legge nelle motivazioni.
Non un dettaglio da poco, dal momento che nel caso specifico la tesi accusatoria si basava proprio sul movente. Troppo fragile, secondo la corte, per «fornire una prova rigorosa e incontestabile dei motivi» che avrebbero portato il generale Mori e il colonnello Obinu ad aiutare Provenzano. Il procuratore generale, durante la sua requisitoria, aveva fatto cenno a un «ventaglio di moventi» che, a detta del giudice, si risolvono «in mere ipotesi alternative tra loro». L’assoluzione di Mori e Obinu ha portato, infine, a indagare per l’eventuale reato di falsa testimonianza quanti avevano deposto durante il processo contro i due imputati: Mauro Olivieri, Francesco Randazzo, Pinuccio Calvi, Giuseppe Mangano, Roberto Longu e Sergio De Caprio, meglio noto come capitano Ultimo.