Gli unici elementi che portano all'uomo in carcere, anche secondo la ricostruzione della teste, sono i dati reperiti attraverso Facebook e altri social, che riportano a un’utenza telefonica sudanese, dalla quale vengono intercettate in tutto tre telefonate. Sulle richieste di deposito avanzate dall’avvocato difensore nessuna opposizione da parte del pm Ferrara
Caso Mered, sentita la vice questore Marinelli «Abbiamo seguito le piste suggerite dall’Nca»
Nessun verbale d’arresto, solo un telefono, un’agendina, dei foglietti manoscritti e quello che da oltre un anno, ormai, è detenuto al Pagliarelli con l’accusa di essere il trafficante di uomini Medhanie Yehdego Mered. Il racconto fatto oggi davanti alla seconda Corte d’Assise, nell’aula bunker dell’Ucciardone, dalla vice questore aggiunta del servizio centrale operativo di Roma Mariapia Marinelli combacia con quanto ricostruito ieri dal dirigente Carmine Mosca. Il giorno in cui si recano a Khartoum per l’estradizione del presunto boss della tratta non avviene nulla che permetta, ad oggi, di avere una qualche conferma sull’identità dell’uomo in carcere. «La polizia sudanese ci disse che aveva rinvenuto questi oggetti nell’alloggio che occupava l’uomo, che io però non ho visto – spiega -. Ci fu detto anche che l’alloggio era collegato anche a un’altra persona, sulla cui identità però non ci fu detto nulla».
Gli unici elementi che portano a lui, anche secondo la ricostruzione del vice questore Marinelli, sono i dati reperiti attraverso Facebook e altri social, che riportano a un’utenza telefonica sudanese, dalla quale vengono intercettate in tutto tre telefonate. Nessuna però riconducibile né alla moglie del trafficante Lidya Tesfu né al fratello Merhawi. «Non abbiamo fatto richiesta per avere un tabulato telefonico – dichiara la donna -. Questo numero ci fu fornito direttamente dall’Nca, che ci disse di monitorarlo perché avrebbe potuto essere riconducibile al trafficante ricercato. Un numero, questo, emerso dall’analisi a livello tecnico degli id di Facebook». Restano le ambiguità, anche con la sua testimonianza, rispetto alla famosa foto sin dall’inizio attribuita a Mered. Marinelli precisa che un’identificazione, per essere ufficiale, deve essere fatta attraverso impronte digitali, foto dattiloscopiche, fotografie fatte da un segnalatore di polizia scientifica e un documento che può essere un passaporto o una carta d’identità.
Tutti elementi, in questo specifico caso, mancanti. C’è solo una foto e neppure ufficiale. Che, tuttavia, il fratello del trafficante riconosce, quando i poliziotti olandesi gliela mostrano in un interrogatorio del 29 settembre 2015: «Eravamo a conoscenza di questo episodio, ma non abbiamo mai fatto richiesta per avere questi atti perché gli olandesi ci dissero che Merhawi si era rifiutato di sottoporsi al test del Dna – dice la Marinelli -. Poco dopo abbiamo anche sentito, sulla stessa foto, il collaboratore Weabrebi Atta Nouredin, che riconosceva quel soggetto ritratto col crocifisso col nome di Abdega Asghedom». Eppure, in una nota della polizia datata 18 marzo 2015 la stessa foto viene usata per identificare il boss Mered: «Lo si presumeva sulla base di quanto raccolto dal profilo Facebook dell amoglie Lidya Tesfu. Non era un dato ufficiale», insiste la donna.
Sulle richieste di deposito, infine, avanzate nelle settimane precedenti dall’avvocato difensore Michele Calantropo nessuna opposizione da parte del pm Geri Ferrara, fatta eccezione per un documento della Guardia Costiera. Il magistrato ha chiesto, invece, l’esame di Merhawi e anche quello dell’eritreo detenuto a Rebibbia Haile Seifu e un suo confronto col collaboratore Atta.