Caso Empire, chi è Giacomo Nuccio Ieni Presunto boss «esuberante e ben inserito»

Mantenere la riservatezza per non essere nominati dai pentiti. La regola del clan Pillera, radicato a Catania negli anni Ottanta e poi confluito nel clan Cappello, era semplice: i capi non dovevano essere riconoscibili. A sostenerlo è Maurizio Toscano, uno dei collaboratori di giustizia del processo Atlantide che, in primo grado, ha portato all’assoluzione – per il reato di associazione mafiosa – di Giacomo Ieni, detto Nuccio ‘u Mattuffu. Secondo gli inquirenti, al vertice della cosca che prende il nome dal boss detenuto Salvatore Pillera. Di Ieni, dopo anni di silenzio, si torna a parlare adesso che il caso Empire è sulla bocca di tutti. La nota discoteca etnea sarebbe riferibile proprio a lui. Il 58enne, sottoposto agli obblighi della sorveglianza speciale, alcuni giorni fa è scappato dopo un fermo di polizia. Salvo poi tamponare una volante della squadra mobile e tentare una mal riuscita fuga a piedi. Un fatto a seguito del quale Giacomo Ieni è stato prima arrestato e poi scarcerato dal giudice per le indagini preliminari.

Come emerge dal decreto di sequestro e confisca dell’Empire, a raccontare il ruolo apicale di Giacomo Nuccio Ieni non sono gli affiliati semplici. Ma i reggenti di altri clan, gli unici che con lui avrebbero avuto rapporti. Come Giuseppe Di Giacomo, ex capo del clan Laudani, pentito dal 2009. Nei suoi racconti entrano gli incontri con il boss Salvatore Pillera, detto Turi cachiti, avvenuti nel carcere di Cuneo, nonostante il regime di 41bis. In quegli anni, tra il 1998 e il 2001, tra una cella e l’altra sarebbero corsi gli accordi di pace tra i Laudani e i Pillera. Questi ultimi, dice il pentito, potevano contare sul lavoro sul territorio di Giacomo Ieni. E non è tutto. Giuseppe Laudani, boss dell’omonima famiglia, parla di contrasti tra il clan Pillera e il gruppo di Picanello del clan Santapaola. Una inimicizia che sarebbe sfociata nei piani per un omicidio. Nelle intenzioni dei Santapaola ci sarebbe stato l’omicidio di due esponenti di maggiore spicco della cosca avversaria: Nuccio Ieni e Corrado Favara. Un progetto di assassinio che sarebbe saltato solo per via dell’operazione Atlantide

A indicare Nuccio Ieni come «responsabile del clan Pillera, insieme a Corrado Favara» è anche il collaboratore Eugenio Sturiale. Dopo quasi vent’anni tra le file dei Santapaola, Sturiale passa nel clan Cappello. Per poi lasciarlo e prestare i suoi servizi ai Laudani. È lui a spiegare la «particolare forza economica» dei Pillera. Ed è sempre lui a raccontare di aver visto spesso Ieni al bar St Moritz, «esercizio sotto estorsione», riportano i giudici etnei. Stesso locale, appuntamenti diversi: è Gaetano D’Aquino – reggente dei Cappello – a dire di aver incontrato ‘u Mattuffu nel noto bar catanese. D’Aquino dice di aver captato i malumori dei presunti co-reggenti di Ieni, Nino Strano Stellario e Corrado Favara: «L’eccessiva esuberanza di Nuccio Ieni» sarebbe stata «in contrasto con la strategia di sommersione dell’organizzazione criminale».

Non solo. «Si faceva vedere troppo in giro con soggetti malavitosi», riportano i magistrati riassumendo le dichiarazioni di D’Aquino. Ieni, sempre secondo il pentito, era «ben inserito nei rapporti imprenditoriali a Catania, poiché titolare di un bar che si chiamava Baretto in via Manzoni. Poi aveva discoteche e ristoranti, alcuni dei quali con i Prestipino». Infine, per concludere il quadro dei collaboratori di giustizia, l’ultimo a parlare del presunto boss etneo è Rosario Piccione, attivo nel territorio di Siracusa. I ricordi di Piccione vanno al 2001, anno in cui un clan aretuseo avrebbe messo in atto un’estorsione ai danni di un negozio Elco Trony della città. Ma «Nuccio Ieni pretendeva che chi pagava a Catania non dovesse pagare ai clan siracusani, anche qualora avesse aperto un altro punto vendita a Siracusa». 

Tutti elementi che rappresenterebbero una «novità rispetto alla sentenza assolutoria di primo grado». Sulla base dei quali sono state decise le nuove misure di sorveglianza speciale a carico del presunto boss. E anche il sequestro e la confisca dei beni che, secondo i giudici, sono a lui riconducibili. Assieme all’Empire c’è il bar di via Manzoni, a pochi metri dalla questura etnea. In base alle dichiarazioni del 2004 del collaboratore di giustizia Gaetano Ruccella, almeno in quegli anni al Baretto lavorava tutta la famiglia di Ieni. Il quale, sempre secondo il pentito, era «riuscito a ottenere la concessione per tenere i tavolini sul suolo pubblico grazie ai buoni rapporti che aveva con alcuni appartenenti alla polizia municipale».


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