Caso Clorosoda, tutti i dubbi sulla perizia I tossicologi: «Ci siamo basati sui dati dell’azienda»

Di sicuro c’è che il caso Clorosoda non è chiuso. E permangono i dubbi sulla perizia effettuata dai ricercatori universitari Arnaldo Capelli, Salvatore Caputo, Fabio De Giorgio e Ivo Iavicoli. Il collegio peritale, con una maxi relazione di oltre 1550 pagine, ha escluso il nesso causale fra i decessi – una ventina quelli accertati – e le malattie contratte dagli ex lavoratori del reparto denominato killer e le condizioni dell’impianto.

Dopo quattro ore di udienza, il giudice delle indagini preliminari Fabrizio Molinari ha chiuso l’audizione dei periti senza pronunciarsi ulteriormente. Tre le ipotesi in campo: rinvio a giudizio per i 17 indagati – che a vario titolo si sono succeduti nel corso degli anni nella gestione dell’impianto – per omicidio colposo e lesioni aggravate, proscioglimento o richiesta di un supplemento di indagine. Un’incertezza che lascia gli ex lavoratori e i familiari che hanno assistito all’udienza con l’amaro in bocca. Erano circa una trentina ad ascoltare il serrato confronto: da una parte gli avvocati di alcuni dei 118 ex dipendenti che si sono costituiti parte civile e dall’altra i tossicologi che hanno esaminato oltre 10.500 pagine messe a disposizione dalla Syndial e dall‘Eni.

Interpellati dagli avvocati difensori, i quattro periti hanno ammesso che «non eravamo nelle condizioni di stimare la capacità produttiva del reparto, né di impianti vicini (come l’impianto CTE, a 250 metri di distanza, che produceva fino a poco tempo fa il dannoso pet – coke, ndr). Ci siamo basati sulle campagne di monitoraggio ambientale dateci dall’azienda». Inoltre «non ci sono state indagini meteo, dato che nel 2002 il materiale è stato tutto smaltito e quindi abbiamo fatto affidamento solo sugli atti». I medici hanno poi constatato una discrasia tra i verbali rilasciati dai lavoratori e la documentazione in loro possesso.

A chi ha sollevato la questione dell‘amianto i periti hanno risposto in maniera secca. «Non c’è, a 50 anni di distanza, alcuno caso di mesotelioma sull’elenco dei 118 lavoratori oggetto di questo dibattimento. Non avevamo elementi per dire se ci fosse amianto o meno, non abbiamo acquisito i censimenti effettuati dalla Raffineria e dalla Procura di Gela su questo materiale». Su questo passaggio gli ex lavoratori presenti hanno rumoreggiato. Carmelo Tallarita, ex operaio in pensione, commenterà dopo l’udienza che «a molti di noi l’esposizione all’amianto è stata riconosciuta per legge».

Il dibattimento, così come la perizia, erano incentrate sulla presenza e sugli effetti esclusivamente del mercurio. «Ma non c’era solo questo materiale – hanno ricordato molti del comitato spontaneo Clorosoda. Dovevano essere tenuti in considerazione anche la presenza e gli effetti del benzene, del cloroetano, dell’acido solforico». Un ex lavoratore, che ha preferito rimanere anonimo, ha raccontato un aneddoto significativo. «Quando tornavo a casa – ha ricordato guardando il figlio lì presente negli occhi – avevo il mercurio nel corpo, nonostante la doccia che facevo al lavoro. Rimanevano delle palline che si incastravano tra i peli. E, appena mi mettevo a letto, spuntavano bruciori di stomaco e mal di testa. Mia moglie mi prendeva in giro: “Ci vorrebbe una stanza piena di Maalox solo per te”». 


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Chiusa la fase probatoria, non convince la relazione che ha escluso il nesso causale tra i decessi e le malattie contratte dagli ex lavoratori del cosiddetto reparto killer della Raffineria. Gli stessi tecnici hanno ammesso di avere avuto una «documentazione lacunosa», mentre gli ex dipendenti raccontano delle conseguenze da esposizione al mercurio

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