«Caro prof, la parola mafia esiste»

Caro Prof De Filippo, voglio inviarle quel che non ho letto a “Io Leggo”. Si tratta di una bozza pesantemente rivista, alla luce degli appunti presi durante la serata.

Il sindaco di Catania non è catanese. Il suo predecessore non era catanese, così come quello ancora prima. Non è catanese il preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, non sono catanesi moltissimi dei docenti e la maggioranza degli studenti, così come non è catanese Laura Salafia. All’Antico Corso, persino la maggioranza dei volontari del centro Experia non sono “del quartiere”, e nemmeno catanesi. Però gli abitanti dell’Antico Corso sono catanesi da generazioni, in questa città hanno una memoria storica costruita sulla propria famiglia che tra i vicoli di Via Plebiscito e i ruderi del Monastero ha vissuto per generazioni. Chi sono gli abitanti dell’Antico Corso, quindi? I delinquenti che vengono a “turbare” la nostra serenità con il sangue della sparatoria? O sono dei cittadini privati di tutto quello che avevano? Entrambe le cose, naturalmente. Ci sono tanti delinquenti, ci sono tanti affiliati alla criminalità organizzata. Lo sappiamo “tra noi”, colti e meno colti, ma comunque tutti legati all’Università: la devianza nasce in un contesto disagiato. Una ovvietà, ma di cui spesso ci dimentichiamo. Qualcuno diceva che è sbagliato “semplificare” la situazione, e a ragione: la situazione è complessa, e nessun dettaglio va trascurato per raggiungere una soluzione al “problema Antico Corso”. La convivenza dell’Università con gli ospedali, il caro affitti, il traffico senza fine della Via Plebiscito.

Ma la Mafia? Nessuno la vuole dire questa parola, quasi fosse un’offesa. Perché dovrebbe essere un’offesa dire qualcosa di così ovvio e scontato? La Mafia non è una cosa di cui i mafiosi vanno poco fieri, nascondendola. La ostentano, si fanno vedere, te la sbattono in faccia la propria “proprietà del quartiere”. Ma non è una ragione culturale, non vorrei offendere nessuno dicendo che è finito il tempo di “Accattone”, chi abita nei quartieri ha i nostri stessi riferimenti culturali: la tv, internet, il tifo allo stadio, i film americani al cinema e se proprio vogliamo restare all’iper locale Salvo La Rosa, Litterio e il giornale “La Sicilia”. Solo che i presidi attendono la pubblicazione della propria “lettera di denuncia”, la gente meno intellettuale la fotografia del proprio figlio che gioca a calcio negli allievi. A tutti poi piace il benessere, guadagnare, avere una posizione di prestigio, “fare affari”. Ma quando gli “affari” non vanno, è, bassamente, il disagio a creare la violenza. Il disagio, generato dall’Università, dagli ospedali, dal traffico. E non perché in piazza Dante non si trova posteggio, solo perché gli “affari” che girano attorno a queste strutture non riguardano gli abitanti del quartiere, che sono emarginati. Qualcuno se ne approfitta, e per campare ci si infila in qualunque tipo di “affare”. Anche qui spero di non dire niente di nuovo: tutto è molto complesso, e guai a ridurre tutto a una parola “Mafia” o a una motivazione “corna”. Solo una cosa è semplice e banale, e non ha bisogno di altri dati per trovarci tutti d’accordo: il Far West in Piazza Dante c’è stato, e non lo rivogliamo, sia noi “dell’Università” che gli abitanti del quartiere.

 Uno scrittore, un giornalista soprattutto, Guseppe Fava, è stato un attento osservatore di Catania. Anche lui non era catanese, e proprio di questa città “invasa” da chi ci è venuto per fare affari, lasciando i catanesi in un angolo alla ricerca di una città che non è più la loro, ha dedicato un bellissimo articolo su “I Siciliani” del 1983: Sindrome Catania. Significativo in una situazione come quella di oggi, perché a distanza di 27 anni nulla sembra essere cambiato, compresi i catanesi, acquisiti e non, che continuano ad avere solo una cosa ben sviluppata: l’amore per se stessi e i propri interessi, e una spiazzante ironia per tutto quello che li circonda. La banalità del male è che il catanese non vuole la violenza, ma non si è accorto che la violenza è già arrivata, scrive Pippo Fava. Ecco uno stralcio del suo lunghissimo articolo.

   Dicono che Catania, onde potersi confrontare con Palermo, si sia inventata la mafia.

   La realtà probabilmente è un’altra. La realtà è che il catanese è diverso da ogni altro italiano anche nella criminalità, anzi della genesi stessa della criminalità.

   Catania ha conglobato tutti gli splendidi paesini che le facevano corona, li ha trasformati in altrettante città satelliti dalle quali, ogni giorno, per strade diverse, calano tutte in una volta cinquantamila automobili, e all’imbrunire se ne risalgono.

   Sono gli industriali, i titolari dei grandi commerci, gli appaltatori, uomini politici, alti magistrati, grandi professionisti, docenti dell’Ateneo, deputati, architetti, funzionari.

   Nel vecchio centro della città sono rimasti gli impiegati, studenti, operai, artigiani, piccoli commercianti, droghieri in mezzo ai quali non è più possibile distinguere il catanese nuovo dall’antico: costui sospinto sempre più in basso, verso la pianura, verso Sud, negli sterminati quartieri popolari che hanno nomi mitici e terribili, San Cristoforo, zà Lisa, Fortino, Antico Corso, un dedalo di strade, vicoli, cortili, palazzi fatiscenti, ai quali si sono addossati i nuovi quartieri popolari, subito infami e tristi, nuovo San Berillo, Librino, Monte Po, i duecentomila catanesi più poveri, pescatori, manovali, braccianti, in un territorio dove i servizi sociali, le condutture idriche, le fogne, le scuole, sono ancora quelle di cento anni fa.

   Qui, in questa serie di lager, dove non c’è nemmeno spazio per una partita a calcio fra ragazzini, è maturata la criminalità catanese la quale, come tutte le cose di questa singolare città, ha avuto una ragione delinquenziale, diremmo addirittura una immagine sociale e politica, completamente diversa da ogni altra: migliaia, forse decine di migliaia e quasi tutti giovani. Figli di quella parte più povera della popolazione che si è fatta letteralmente espropriare della città, ricacciati ai margini nella indifferenza quasi brutale delle pubbliche amministrazioni, si sono lanciati alla riconquista di Catania: prima lo scippo, il furto, il borseggio, poi la rapina al passante, alla ricevitoria del lotto, alla banca, infine l’estorsione.

   Qualunque cosa si dica o si neghi, il novanta per cento delle iniziative economiche o degli esercizi commerciali, da anni pagano una tangente criminale.

   Ogni tanto la città si insanguinava per uno scontro fra gruppi che si contendevano la supremazia su un quartiere. Centinaia di omicidi. Fra gli assassini e le vittime mai un forestiero, sempre catanesi. Finché i gruppi hanno cominciato ad integrarsi per gestire interessi criminali sempre più vasti, gli scontri sono diventati più feroci, autentiche battaglie con mitra e bombe a mano. La mafia è nata così.

   Una genesi criminale folgorante.

   Il catanese che parla sempre, ride, grida, sfotte, il catanese allegro, senza amore che non sia anzitutto per se stesso, senza sogni che non siano i suoi personali e inconfessabili, il catanese che nel profondo ritiene probabilmente perfezione erotica nutrire desiderio solo per se stesso. Questo catanese che per essere tale, certamente ha in dispregio la violenza e l’assassinio: essendo già il migliore, l’unico, che bisogno ha della violenza per dimostrarlo, basta l’ironia.

   Sindrome Catania. Una città che ritiene di non aver bisogno della violenza, poiché gli basta l’ironia, che si inventa, e realmente diventa la prima città mafiosa.

Giuseppe Fava, Aprile 1983 su “I Siciliani”


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«Per non sprecare le parole»: c’è scritto così nell’oggetto dell’email mandata da Leandro Perrotta ad alcuni partecipanti al reading del 15 luglio. Una riflessione sui quartieri popolari e la loro rappresentazione giornalistica che ha come destinatari alcuni membri della redazione di Step1 insieme ad Alessandro de Filippo, responsabile del laboratorio multimediale di sperimentazione audiovisiva (la.mu.s.a.) e docente di Storia e Critica del Cinema presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Catania

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