Sono uomini adulti e senza figli che vivono nella struttura da diversi anni. Altri cento ospiti saranno spostati entro la fine di febbraio. Per il momento rimangono nell'ex Residence degli Aranci le famiglie con bambini e le situazioni ritenute vulnerabili
Cara di Mineo, oggi scattano i primi trasferimenti Direttore: «Andranno tutti in strutture più piccole»
Inizia oggi il
trasferimento dei migranti del Cara di Mineo. I primi 50 a lasciare il più grande centro di accoglienza per richiedenti asilo d’Europa sono tutti uomini adulti e senza figli che vivono nella struttura da diversi anni, qualcuno anche da più di cinque. Per loro, adesso, le destinazioni sono tre centri di assistenza per stranieri più piccoli ma sempre in Sicilia. In particolare, 25 andranno a Trapani, 15 a Siracusa e dieci a Ragusa. Per altri 50 il trasferimento è stato programmato per il prossimo 17 febbraio e ancora 50 dopo dieci giorni. «È un’uscita con un paracadute, un modo ordinato con dei tempi giusti», dichiara a MeridioNews il direttore del centro, Francesco Magnano.
Le famiglie con bambini e le situazioni ritenute maggiormente vulnerabili – come quelle di mamme sole con figli o di persone con problemi di salute – resteranno, almeno per il momento, nella struttura. La direzione sembra quella tracciata dal ministro dell’Interno,
Matteo Salvini, che dopo avere chiuso il Cara di Castelnuovo (nel Lazio) ha previsto di «avviare la stessa procedura anche per il Cara di Mineo». Un’ipotesi che Magnano aveva definito «estremamente semplicistica». In un primo momento, infatti, il leader della Lega aveva parlato di una chiusura da concludere entro un paio di settimane salvo poi ritrattare le tempistiche parlando della fine dell’anno.
Quelli che domani
lasceranno la struttura in autobus, accompagnati da mediatori culturali e scortati dalle forze dell’ordine, sono stati avvertiti già diversi giorni fa. La scelta non è stata casuale, «si è pensato a ospiti non arrivati di recente – chiarisce il direttore – Abbiamo parlato con loro per comunicare la decisione arrivata dal ministero e li abbiamo trovati già al corrente e consapevoli di quanto sta accadendo. Guardano la televisione ed è così che hanno appreso le dinamiche ministeriali di volere chiudere i grandi centri di accoglienza». Un’idea che, spogliata delle ideologie politiche, «potrebbe anche essere utile a ridurre l’impatto sociale e favorire il vero senso dell’accoglienza fatto di integrazione all’interno di comunità più piccole», commenta Magnano.
In questo momento nel centro, che è arrivato a ospitare anche oltre quattromila persone negli anni precedenti, ci sono 1357 tra uomini e donne. Con il trasferimento previsto per oggi, la cifra scende sotto la cosiddetta quota 1.200 che, come ha spiegato il direttore – già lo scorso ottobre aveva dichiarato che il centro «non ha una lunga vita davanti a sé» – «è una clausola di salvaguardia fissata dal contratto di appalto che, però, non ne segna la necessaria chiusura». Un tetto minimo, in pratica, che era stato previsto dal ministero tenendo conto di un margine di profitto che potrebbe non esserci più per le aziende che vi operano e che consentirebbe, quindi, alla struttura di chiudere i battenti senza pagare nessuna penale.
L’annunciata chiusura dell’ex
Residence degli Aranci – struttura in precedenza riservata ai militari americani di stanza nella base di Sigonella e ai loro familiari – ha allarmato i lavoratori delle cooperative che operano all’interno. «Man mano che diminuirà il numero degli ospiti – non fa mistero il direttore – scenderà anche quello dei lavoratori, seguendo i parametri stabiliti con il capitolato d’appalto». Riduzioni ulteriori dopo quelle durante il passaggio di consegne dello scorso ottobre tra la vecchia e la nuova gestione dei servizi, in cui si erano persi oltre 150 posti di lavoro. Negli scorsi mesi, poi, non sono mancate le proteste dei migranti: ad ottobre alcuni ospiti si sono rifiutati di mangiare dopo aver scoperto che, nel nuovo contratto, il menù della mensa era cambiato; a ottobre molti hanno poi occupato la Catania-Gela per manifestare contro il taglio dei ticket di viaggio utilizzati per uscire fuori dal centro di accoglienza.