«Siamo consapevoli che non esiste clan mafioso pakistano se non dialoga con quelli siciliani», dicono i sindacalisti. Quella pakistana è la seconda etnia impiegata nei campi del Nisseno. «Per contrastare lo sfruttamento, serve applicare la legge sul caporalato»
Caltanissetta, chiesto lutto cittadino per Adnan Siddique «Senza il fenomeno del caporalato, sarebbe ancora vivo»
«Siamo consapevoli che non esiste clan mafioso pakistano se non dialoga con quelli siciliani e siamo altresì certi che, senza il fenomeno del caporalato, Adnan sarebbe vivo». Per questo, Alfio Mannino e Ignazio Giudice, segretario generale Cgil Sicilia e segretario generale Cgil Caltanissetta, hanno chiesto la proclamazione del lutto cittadino per commemorare Adnan Siddique. Arrivato in Italia da circa cinque anni, il 32enne pakistano – che lavorava come manutentore di macchine tessili – è stato ucciso con cinque coltellate la sera del 3 giugno a Caltanissetta nel suo appartamento. «È un atto di civiltà. Questo omicidio, così violento – affermano – non può rimanere isolato dal contesto».
Sul movente ci sono ancora diverse ipotesi, ma il contesto sarebbe quello del caporalato. Per l’omicidio sono stati fermati quattro suoi connazionali – Muhammad Shoaib (27 anni), Alì Shujaat (32 anni) Muhammed Bilal (21 anni) e Imrad Muhammad Cheema (40 anni) – e un quinto uomo – Muhammad Mehdi (48 anni) – che avrebbe ospitato gli aggressori in fuga, è accusato di favoreggiamento. Durante l’interrogatorio di garanzia, nessuno di loro ha ammesso responsabilità. Hanno dato una loro versione dei fatti che, però, non combacia con la ricostruzione degli inquirenti e nemmeno con le testimonianze di alcuni vicini di casa della vittima. Oltre al coltello di circa 30 centimetri, nel luogo del delitto sono stati ritrovati anche un altro coltello e una bottiglia di birra spaccata. Tutti i reperti, adesso, sono in mano ai Ris di Messina per le analisi.
Stando a quanto ricostruito finora, tutti avrebbero fatto da mediatori per i datori di lavoro nel procacciare manodopera a basso costo. Adnan, invece, per quei braccianti sfruttati sarebbe diventato un punto di riferimento, tanto che di alcuni avrebbe raccolto le lamentele prima di accompagnarli a sporgere denuncia. E anche proprio lui stesso aveva denunciato le minacce subite da uno dei pakistani che adesso è accusato di averlo ucciso.
Quella pakistana, nel Nisseno, è una comunità molto grande e radicata nel settore agricolo. «Dei 550 braccianti iscritti negli elenchi anagrafici del 2019 (gli ultimi disponibili, ndr) ben 111 a Caltanissetta sono di origine pakistana», spiega a MeridioNews Peppe Randazzo, il segretario della Flai Cgil di Caltanissetta. Numeri che fanno dell’etnia pakistana la seconda, dopo quella rumena. «Negli ultimi due anni – aggiunge Randazzo – hanno superato anche quella tunisina e marocchina. Ma noi, come sindacato, non siamo ancora riusciti a penetrare questa comunità piuttosto chiusa».
Serre di ortofrutta soprattutto nella zona sud della provincia – tra Gela, Niscemi, Riesi e Mazzarino – uliveti, mandorleti e vigneti nella parte nord. «Anche quando i lavoratori vengono a segnalarci di essere costretti a lavorare dodici ore al giorno per un salario che non supera i 30 euro al giorno – riferisce il sindacalista – la denuncia si ferma a noi». Solitamente non arriva alle forze dell’ordine perché «i lavoratori spesso sono ricattati e, al di là delle ritorsioni, hanno timore di non riuscire più a lavorare».
Episodi di sfruttamento che non emergono facilmente e che, seppur sommersi, esistono. «La soluzione sarebbe a monte – commenta Randazzo – basterebbe applicare per intero la legge sul caporalato: non fermarsi solo all’aspetto repressivo ma mettere in pratica anche per la parte che prevede di istituire le sezioni territoriali». Una sorta di moderni uffici di collocamento in cui si incontrano la domanda e l’offerta per evitare che i braccianti agricoli vengano reclutati all’alba di ogni mattina nelle piazze delle città, senza nessuno controllo.