Brutti da morire, Ciprì e Maresco

Chissà che effetto fa per due come Daniele Ciprì e Franco Maresco essere assolutamente unici nel panorama cinematografico internazionale. Chissà se la cosa poi gli importi più di tanto. I due cineasti palermitani, infatti, sono artisti pessimisti ed apocalittici («Oggi solo un imbecille può dichiararsi ottimista», hanno dichiarato qualche tempo fa), con un acuto senso di inconsolabile sfiducia.

Ma assolutamente unici sì, perché non esistono progenitori nè tanto meno epigoni del loro cinema e d’altronde non potrebbe essere altrimenti. Sarà per il grottesco caleidoscopio dei loro film così dannatamente assurdi da far sbellicare dalle risate. Sarà per l’immagine cruda, desertica e paradossale grondante di significati. Sarà perchè gli uomini ora nani, ora storpi, ora obesi che “rumoreggiano” nei loro film, rappresentano l’uomo schiacciato dalla noia e dall’ignoranza.

Dunque un cinema “brutto da morire”, quello di Ciprì e Maresco, ma che dalla ‘bruttezza’ raccoglie gli elementi di un epos siciliano ironico e spiazzante. “Brutti” sono ad esempio i personaggi che popolano pellicole surreali quali Lo zio di Brooklin (1995) o Totò che visse due volte (1998). Uomini deformati, muti e in bianco e nero sullo sfondo di una squallida periferia palermitana resa imprecisata dal non colore e da non-luoghi di pasoliniana memoria. “Brutta” è la sequenza di flautolenze rumorosissime, rutti, lamenti che questi ominidi emettono senza soluzione di continuità (il programma Blob, riprendendoli da Cinico TV, li ha utilizzati con efficacia come laccio tra una clip e l’altra). Ed ancora “bruttissimi” sono i tic, le turbe e la blasfemia acuta di un Cristo sciolto nell’acido da una malavita maleodorante, ridicola e cattivissima. E c’è “bruttezza”, infine, nelle smorfie facciali di Franco che bisticcia con Ciccio nel vecchio repertorio di gag e spezzoni che Ciprì e Maresco hanno utilizzato per l’apologia dei due comici concittadini dal titolo Come inguaiammo il cinema italiano (2004).

Ma appunto la “bruttezza” che conduce questi film porta nelle sue tasche sdrucite e sporche il senso di una Sicilia spesso maschilista, spesso accigliata, sedicente di una religiosità malata ed ingenua da morire, come i due fratelli La Marca imbarcatisi in un patetico disastro imprenditoriale ne Il Ritorno di Cagliostro (2003). Ed è così che “un cinema brutto da morire” è soprattutto un “cinema profondo da morire”, il cui venirne a capo necessita un’immersione notevole tra i fotogrammi, tra i suoi sensi.


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