Uno dei capitoli più drammatici dell'inchiesta della Finanza sulla struttura di Castelbuono è quello dedicato a uno spazio di 16 metri quadrati utilizzato come cella. «All'interno torture sistematiche», si legge nei documenti dell'indagine
Blitz Relax, come funzionava la stanza-lager per i disabili Gli ospiti reclusi per ore al buio. «Sento freddo, aiutatemi»
A un certo punto Francesco, che ha poco più di 40 anni ed è affetto da una forma grave di autismo, non riesce più a trattenersi e si urina addosso. Pochi minuti prima, battendo i pugni sul muro, aveva implorato aiuto, chiedendo di uscire da quella stanza buia. La scena drammatica è una delle tante immortalate da una telecamera nascosta dai militari della guardia di finanza all’interno della comunità d’assistenza suor Rosina La Grua di Castelbuono, in provincia di Palermo. La struttura, dedicata alla religiosa morta nel 1989, è finita al centro dell’indagine Relax della procura di Termini Imerese. Trentacinque persone indagate, di cui dieci finite in carcere e sette ai domiciliari. Un’inchiesta che «lascia senza fiato», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dalla giudice per le indagini preliminari Angela Lo Piparo.
Quasi 400 pagine in cui vengono messi insieme i pezzi di una storia fatta di «crudeltà e nefandezze disumane». Vittime di questo presunto sistema 23 ospiti della struttura. Tutte persone con disabilità fisiche e psichiche. Dietro le sbarre è finito Gaetano Di Marco, legale rappresentante della onlus originario di Catania. Città, quest’ultima, in cui gestisce alcuni centri di fisioterapia convenzionati con l’Azienda sanitaria provinciale. Stesso inquadramento, ma con l’Asp di Palermo e la Regione Siciliana, che aveva la struttura di Castelbuono. Tanto da incassare oltre sei milioni di euro in cinque anni. Soldi che, almeno in parte, secondo l’accusa sarebbero stati utilizzati per fini privati.
Nel 2020 il via all’inchiesta grazie alla denuncia di una ex lavoratrice. Quello descritto ai militari è uno «scenario di illegalità diffusa» che fa scattare intercettazioni telefoniche e ambientali ma a rivelarsi decisiva è una telecamere nascosta istallata nella cosiddetta sala relax. Una sorta di mini lager di 16 metri quadrati, senza finestra e coi i muri di gomma, in cui i pazienti venivano ripetutamente rinchiusi, picchiati, insultati e senza potere espletare i bisogni fisiologici. «Gli ospiti della comunità scontano quotidianamente la pena della loro disabilità – si legge nell’ordinanza – con il loro essere sottoposti a torture sistematiche che aggravano la loro condizione mentale e ne devastano il corpo». Francesco sarebbe stato uno degli ospiti maggiormente trattenuto all’interno della stanza trasformata in cella di reclusione.
Il 30 settembre 2020 il paziente rinchiuso al buio, di notte, per quasi quattro ore. L’indomani, annotano i finanziari, stesso copione: solo e senza assistenza per quasi otto ore. L’uomo «urlava, batteva i pugni e chiedeva invano dell’acqua». E così uguale anche l’1, il 2 e il 3 settembre 2020. «Malgrado le insistenti preghiere per uscire dalla stanza – si legge nei documenti dell’inchiesta – veniva drammaticamente ignorato» e diverse volte pure insultato. L’operatore socio sanitario 34enne Pietro Butera – finito in carcere – lo apostrofava come «coglione», rimproverandolo pure per avere urinato a terra. «Se un porco e vastaso. Fai schifo», gli diceva invece un’altra operatrice finita in carcere, Monica Collura, dopo che il paziente si era fatto la pipì addosso.
«Una condizione di reclusione standardizzata – continua la giudice per le indagini preliminari – con il totale disinteresse rispetto ai malesseri e alle paure manifestate dall’uomo, costretto a distendersi per terra e privo di espletare i propri bisogno fisiologici. Inutile i tentativi di chiedere aiuto: «Sto sentendo freddo, per favore apritemi», gridava, piangendo, mentre le microspie della guardia di finanza registravano tutto. Chi lavorava all’interno della struttura non avrebbe fatto nessuna differenza tra uomini e donne. Una paziente donna il 4 ottobre 2020 veniva chiusa dentro la sala-lager soltanto con degli slip addosso. Un’altra veniva trascinata dentro e colpita con un scarpa mentre una ragazza, mentre era chiusa nella stanza, compiva degli atti di autolesionismo «battendo la nuca contro il muro». Oltra a Di Marco risultano indagate la moglie Antonietta Russo e le tre figlie: Carla, Cristina e Chiara.