Tra il 1993 e il 1995 la finanza mette i sigilli al patrimonio miliardario (in lire) di un 42enne. Secondo chi investiga all'epoca, l'incensurato è prestanome di Cosa nostra. La confisca del seminterrato di via Randazzo diventa definitiva nel 1999. La casa è stata assegnata a I Siciliani giovani, Gapa, Arci e Fondazione Giuseppe Fava
Beni confiscati, consegnate le chiavi del giardino Scidà Appartamento ritenuto dei Santapaola, «ora della città»
Nel 1993, quando gli uomini della guardia di finanza mettono i sigilli al seminterrato di via Randazzo 27 Nitto Santapaola, storico capomafia di Catania e ritenuto reale proprietario dell’appartamento, era ancora latitante. I finanzieri eseguono un maxi-sequestro ad aprile e il superboss sarebbe stato arrestato un mese dopo. Adesso, in un appartamento di 60 metri quadrati (con un giardinetto poco più grande: 80 metri quadrati) che 25 anni fa era ritenuto collegato a Cosa nostra, nascerà una casa della memoria dell’antimafia a Catania. La porta di quel sottoscala si è aperta oggi al pubblico per la prima volta dopo tempo: non tantissimo, quello trascorso dall’ultima assegnazione a quella attuale, che ha avuto un punto fermo lo scorso 8 novembre. Il giorno in cui a I Siciliani giovani, Gapa, Arci e Fondazione Giuseppe Fava sono state consegnate le chiavi di uno dei primi beni confiscati alla mafia e affidati alle associazioni con il nuovo regolamento comunale.
Il 5 aprile 1993 le fiamme gialle di Catania eseguono un sequestro beni miliardario. Le indagini della questura etnea avevano portato a credere – secondo quanto riportato dai giornali dell’epoca – che un patrimonio di circa cinque miliardi di lire, collegato a un 42enne incensurato, fosse in realtà nell’orbita del clan guidato da Benedetto Santapaola. Passano due anni, è il 10 marzo 1995, il sequestro viene ridimensionato ma diventa una confisca: il valore complessivo, stavolta, è di un miliardo e mezzo di lire. Il legame tra il 42enne ritenuto prestanome e la cosca sarebbe la vicinanza con un parente del boss di Cosa nostra, ammazzato nel 1982, Alfio Ferlito. Nel 1997 e nel 1998 arrivano le successive pronunce del tribunale: la Corte d’Appello e quella di Cassazione fanno qualche modifica, ma la confisca dell’appartamento di via Randazzo 27 resta. Il suo valore, nel 1999, viene stimato in 42 milioni di lire. È in quell’anno che viene acquisito al patrimonio del Comune di Catania, vincolato a farne uso di carattere sociale.
«Catania è stata a lungo tempo ed è ancora vittima della violenza mafiosa, adesso al posto di quei beni che sono stati comprati coi soldi sporchi c’è uno spazio aperto a tutta la città», dice Matteo Iannitti, componente dell’associazione I Siciliani giovani che, assieme alle altre già citate, ha avuto in gestione l’immobile. «Non siamo ancora in condizione di cominciare le attività: ci sono da rifare l’impianto idraulico e quello elettrico, sistemare il giardino e le stanze», elenca. Per raccogliere i finanziamenti necessari è stato attivato un crowdfunding sulla piattaforma online Produzioni dal basso. E Banca Etica ha selezionato il progetto, unico a Catania, per contribuire alle spese: aggiungerà il 25 per cento di quanto si riuscirà a raccogliere tramite le donazioni dei cittadini.
«Quando abbiamo cominciato l’iter per ottenere un bene confiscato – interviene Giovanni Caruso, volto storico de I Siciliani giovani e del Gapa – quasi non credevo che saremmo riusciti a farcela. Questo per noi è un sogno che si avvera». E l’intitolazione a Giambattista Scidà – magistrato, a lungo presidente del tribunale per i Minori di Catania (morto nel 2011) e tra i volti più rappresentativi dell’antimafia catanese – non è un caso. «L’ingiustizia sociale è la matrigna di tutte le mafie – prosegue Caruso – Questo non sarà solo un posto di memoria, sarà anche un posto di allegria. Alla mafia dà fastidio essere toccata nel portafogli: prendere in mano un posto che era suo e trasformarlo in un luogo di tutta la cittadinanza è una sfida a viso aperto, che ci sentiamo di lanciare».
Ad alimentare il progetto sarà contributo dei catanesi. «Le donazioni contribuiranno a costruire un senso di appartenenza – replica Francesca Andreozzi, vicepresidente della Fondazione Fava, figlia di Elena e nipote di Pippo Fava – È un progetto in itinere, lo vedrete trasformato. Sarà aperto alle scuole e servirà a fare informazione. A spiegare, per esempio, chi era Giuseppe Fava come uomo. Per parlare di lui non solo attraverso la sua attività giornalistica, ma anche attraverso i suoi quadri, i suoi racconti, i suoi testi teatrali. Per avvicinarlo a noi e renderlo una persona normale. Perché se rimane un eroe rischia di diventare irraggiungibile, ma era un uomo e combatteva l’ingiustizia con gli strumenti degli uomini onesti».