Circa 400 giovani migranti non accompagnati che per tre anni saranno avviati al mondo del lavoro, divenendo autonomi e integrati. L’obiettivo è fare esperienza della migrazione non come problema ma come risorsa. Tutto questo in quel quartiere che è un po’ il «circolo virtuoso di Palermo»
Ballarò cuore del progetto Ragazzi Harraga «Accogliere i minori soli per curare la società»
«I minori sono inespellibili, non prendersi cura di loro è follia, qui sono e qui rimangono. Pensare a una politica d’accoglienza seria e bella non è soltanto una questione di solidarietà, è anche un modo di curare le nostre società». A parlare così è Alessandra Sciurba, referente di Ciai per il progetto Ragazzi Harraga a Palermo, promosso dalla campagna #non6solo e partito il mese scorso. Il progetto, che si rivolge a circa 400 ragazzi migranti soli, cerca in tre anni di aiutarli a integrarsi nel nostro tessuto sociale ma soprattutto ad accompagnarli all’età adulta, con una serie di servizi che vanno al di là di quelli della prima accoglienza.
«Harraga significa bruciare le frontiere – spiega Alessandra – è il nome che si dà in Tunisia ai ragazzi che se ne vanno e che poi magari arrivano qui, ma una volta giunti siamo noi che bruciamo i loro sogni con una gestione inadeguata della loro presenza. Per questo spesso si perdono, se ne vanno, scompaiono». Nella nostra città, infatti, circa il 20 per cento dei minori sparisce: vengono registrati all’arrivo e poi se ne perdono le tracce: «Sono molto vulnerabili e non riescono a trovare una progettualità. L’idea quindi è quella di dar loro una possibilità di scelta, valorizzando il loro potenziale dentro la nostra società».
Cuore del progetto è Ballarò: «In questo momento è una fucina di laboratori, di cittadinanza attiva, di mescolanze, di incontri, di scambi – racconta ancora Alessandra – Al suo interno ci sono delle realtà bellissime, che dal basso hanno costruito il loro lavoro in maniera naturale insieme a persone che non sono italiane solo sulla carta d’identità». Descrive il quartiere del centro storico come una sorta di confine dentro al confine: «Il più grande è la Sicilia, confine d’Europa, al suo interno c’è Ballarò, nella sua valenza però di confine come luogo di unione, non di separazione. Un luogo di sconfinamenti in cui ci si incontra, dove il confine esplode e si sta tutti insieme da decenni». Un luogo di storica interazione, insomma. Ma le difficoltà all’inizio non sono mancate: «In un luogo dove c’è povertà è molto facile che si creino conflitti. Paradossalmente, però – spiega – in un’epoca in cui imperversano guerre fra poveri e razzismo, Palermo si trova dentro una storia diversa, di reale interazione e mescolanza e Ballarò è il suo circolo virtuso».
Il progetto propone un modello di housing closing, che coniuga accoglienza e rivalorizzazione del patrimonio urbano, con la realizzazione di una casa-ostello, vera e propria impresa sociale: «Una delle azioni del progetto è ristrutturare una parte del convento di Santa Chiara, che da un lato si fa soluzione abitativa per i neo maggiorenni usciti dai centri per minori, grazie a una foresteria e a una sala congressi – continua – ma anche luogo dove al contempo gruppi organizzati possono venire a risiedere a Palermo per qualche giorno». A guidare le azioni del progetto, diverse tra loro ma contigue e in costante dialogo, è la volontà di lavorare con cura e razionalità: «Se si procede solo con politiche allarmiste o sicuritarie si generano mostri – avverte Alessandra – La presenza di questi ragazzi può essere una grandissima ricchezza, soprattutto per Palermo che è una città straordinaria nel fare interagire le differenze».
«Voglio sfatare un mito – dice a un certo punto – Ho visto ragazzi arrivare qua molto sereni, perché ce l’avevano fatta, erano arrivati vivi dopo aver affrontato un viaggio sfidando la morte». Arrivano quindi pieni di entusiamo, di buona volontà, di voglia di studiare, ma «mi capita di vederli spegnersi – spiega – perché magari buttati per mesi a far niente in centri dove dovrebbero stare solo per 60 giorni. Sono pieni di risorse ma schiacciati da un sistema di accoglienza inadeguato».
Le attività laboratoriali partiranno da settembre, ma i ragazzi del progetto sono già coinvolti in tutte le fasi di validazione: «Per ogni passo che facciamo chiediamo un loro riscontro – dice – Sono loro che, per ogni passo che fa il progetto, ci dicono se stiamo andando nella direzione giusta, questo è lo spirito». E Palermo fa la sua parte, remando contro il leitmotiv europeo della criminalizzazione delle migrazioni. «C’è voglia di lavorare su una prospettiva che guardi a questi ragazzi in quanto tali, prima che migranti – prosegue – Ragazzi Harraga cerca, in maniera olistica e complessiva, di costruire una progettualità più coerente in cui questi sono giovani che vengono ad arricchire la nostra terra e che possono diventare un’enorme risorsa».
Molti i partner che sostengono il progetto: l’assessorato alla Cittadinanza Sociale del Comune, l’associazione Santa Chiara, il Cesie, la cooperativa sociale LiberaMente, il Cpa Palermo1, Libera Palermo contro le mafie, l’associazione culturale nottedoro e l’agenzia Send. Alessandra spera nella riproducibilità del modello su cui si fonda Ragazzi Harraga, sorte a cui ambiscono anche progetti già esistenti: «I valdesi con i corridoi umanitari hanno cercato di aprire un modello che è riproducibile ma che nessuno sta riproducendo, anzi: in questo momento si stanno criminalizzando le Ong che salvano le persone, si stanno chiudendo le frontiere, si stanno facendo accordi con la Libia, purtroppo non si sta lavorando sui corridori umanitari, non è la direzione delle politiche contemporanee – conclude – Oggi per prendere voti bisogna dire che chi salva vite in mare è un criminale. Palermo anche in questo è in controtendenza, c’è tutta una retorica diversa qui».