Intervista al responsabile siciliano dell'associazione che si occupa di diritti umani. Mario Faillaci: «Non c’è ufficio in cui io vada o luogo pubblico in cui mi ritrovi in cui non sento immediatamente e continuamente considerazioni di carattere razzista e xenofobo»
Associazione 3 febbraio, oltre le lotte nelle piazze «Di razzismo si muore, succede anche a Palermo»
«Per me impegnarmi è un fatto di vita, non una breve parentesi da esibire alle manifestazioni. Tutto quello che faccio, dalle lotte alle storie che ascolto, io lo porto per sempre con me». Parla con una passione che colpisce molto, l’avvocato Mario Faillaci, responsabile per Palermo e l’intera Sicilia dell’associazione 3 febbraio 1996, che si spende per i diritti umani. Un’associazione antirazzista ed interetnica che agisce andando ben oltre i confini dell’Isola. Le sue sedi effettive si trovano a Napoli, Bologna e Genova, ma è l’Italia intera che da 23 anni ormai si interessa e si avvicina alle lotte per cui i suoi volontari ci mettono la faccia. A Palermo i suoi volontari si appoggiano alla sede de La Comune, corrente del cosiddetto umanesimo socialista. Impegnata oggi nel coraggioso obiettivo di costruire un forum nazionale antirazzista, in passato si è impegnata su numerosi fronti. Proprio a Palermo, per esempio, è celebre il sostegno fornito in passato agli ambulanti che, dopo una vertenza indirizzata al sindaco, agli assessori e alla consulta, sono potuti rimanere in via Volturno. Mentre, senza andare troppo indietro nel tempo, lo scorso dieci novembre la manifestazione di Roma ha visto accorre 40mila persone. Numeri da capogiro che hanno spinto tutti a riflettere su cosa fare per non disperdere questo impegno.
Partendo anche da Palermo. «Sicuramente qui non c’è il livello di razzismo che magari può esserci altrove, ma dobbiamo fare i conti col fatto che di razzismo si muore anche a Palermo», dice secco l’avvocato Faillaci. «Palermo è questa – prosegue -, e l’elenco può essere davvero lungo. Una città che ha visto i casi di Favour e Loveth, nel 2011, fino al ragazzo picchiato tempo fa alla Noce che è dovuto andare via col programma di protezione perché ha denunciato i figli dei mafiosi che lo avevano pestato. Palermo è questa, una città in cui i bengalesi di via Maqueda e di Ballarò sono stati minacciati dai mafiosi di quest’ultimo quartiere quando c’è stata la manifestazione a sostegno di Yussupha, a cui avevano sparato in testa un sabato pomeriggio. Cos’è tutto questo? Semplice mafiosità o mafiosità intrecciata a razzismo?». Interrogativi che l’avvocato Faillaci si pone da tempo e che, a suo dire, non riguarda solo alcuni precisi ambiti. «Certi atteggiamenti sono abbastanza diffusi. Non c’è ufficio in cui io vada o luogo pubblico in cui mi ritrovi in cui non sento immediatamente e continuamente considerazioni di carattere razzista e xenofobo», spiega.
Considerazioni alimentate dal governo attuale, che però non responsabile di averle messe nella testa delle persone, quelle che probabilmente certe le cose le pensavano anche prima ma che, a differenza del passato, oggi si sentono più che legittimate a esprimerle davanti a tutti, che sia in una piazza cittadina o in una virtuale. Senza vergogna, senza pudore, senza porsi il minimo scrupolo. «C’è una società che è malata, in cui il riconoscersi nell’altrui è oggi impossibile. Ma – prosegue – c’è una minoranza che vuole reagire, penso ai tanti che recentemente si sono schierati per la riapertura dei porti. Una minoranza che, malgrado sia tale, è ampia, va ricercata però, perché ha bisogno di riconoscersi e unirsi, di uscire fuori dalle case». Ma come fare a trovarsi? Molti militanti come Mario Faillaci girano, ad esempio, per le scuole, per parlare faccia a faccia coi ragazzi e favorirne la conoscenza dell’interculturalità. Ma ogni occasione diventa fondamentale per ribadire che «la terra è di tutti, nessuno è straniero». Un concetto che, a dispetto dei cori urlati alle manifestazioni, «non è solo uno slogan, ma un orientamento di vita – sottolinea Faillaci -. Non si tratta solo di partecipare a qualche sit-in, con le persone che conosco e di cui apprendo le storie, i drammi e le lotte, nascono relazioni che durano nel tempo. Alcune le sento tuttora, malgrado siano passati degli anni».
Ma non è semplice scardinare mentalità e atteggiamenti insani, incivili. Non lo è in una città dove «vedere a passeggio insieme un migrante e un palermitano, dove il primo non è il lavorante del secondo ma un semplice amico, non è una cosa diffusa». Ma anche scardinare certe convinzioni dell’altro non è affatto semplice, a cominciare dal sentirsi costantemente un ospite, anche a dispetto di tanti anni trascorsi a Palermo, con una nuova casa, un nuovo lavoro, nuovi amici. Le storie in cui si è imbattuto lui le ricorda ancora oggi, tutte quante. Tra le tante, ce n’è una che gli capita spesso di raccontare, è quella di un giovane del Gambia, conosciuto durante un incontro al centro di accoglienza di Salina grande: «Ci disse che per lui quell’incontro era stata una cosa bellissima, perché pur non trovandoci là per parlare di permesso di soggiorno, gli stavamo facendo capire che per noi loro erano importanti, che lo erano in quanto esseri umani e che uscendo da quel centro avrebbero anche potuto trovare altre persone come noi – racconta l’avvocato Faillaci -. Normalmente si tende a pensare ai migranti come soggetti interessati solo a quello che riguarda il permesso di soggiorno, come ottenerlo, come rinnovarlo, cose così. Ma sono esseri umani come qualunque altro, fatti anche loro di sogni, desideri, miserie e fragilità. Davvero come tutti».
Di tutto questo, la sera a casa appena richiusa la porta alle sue spalle, rimane ogni dettaglio. Sarebbe impossibile il contrario. «Dalla disperazione alle lacrime, dal non vedere i propri cari da anni alle più consuete e comunissime delusioni d’amore, un mix che mi porto dietro, nel bene e nel male – dice -. Per me impegnarmi è una scelta di vita». Soprattutto nel trovare un modo per affrontare al meglio le differenze di ciascuno. Un obiettivo che, in realtà, dovrebbe porsi ogni uomo civile, non solo un volontario sensibile ai temi che tanto fanno discutere il mondo di oggi. «Essere un riferimento per fare reagire gli altri, decidendo ogni giorno io stesso in primis di reagire. In famiglia, a lavoro, con gli amici. Non è roba da manifestazione, ma una condizione di vita. Comprendo che può essere impegnativo e che io stesso, alle volte, per gli altri posso essere impegnativo ma ognuno sceglie come vivere, è questo il bello».
Dietro le persone che aderiscono all’associazione 3 febbraio – che prende il suo nome da una manifestazione organizzata nella Capitale 23 anni fa, la prima in cui si è cominciato ad affrontare concretamente questi temi -, non ci sono solo numeri e dati, statistiche e slogan. Ma valori per cui spendersi: accoglienza e dignità, solidarietà attiva contro tutti i razzismi, protagonismo e autodeterminazione. Spendersi perché i diritti elementari della persona siano riconosciuti a tutti, indistintamente: il diritto all’accoglienza per tutti senza condizioni, alla libera circolazione, ad una vita dignitosa, a una casa decente, alla salute, allo studio e al lavoro, alla regolarizzazione permanente, contro le frontiere e le leggi che impongono il numero chiuso degli ingressi, diritto di soggiorno umanitario per tutti i profughi, di soggiorno umanitario senza condizioni per tutte le donne vittime delle barbarie della prostituzione e per tutte le persone vittime di altre forme di schiavitù, il soggiorno per tutti i lavoratori sfruttati, la chiusura dei Cie e tutti gli altri luoghi di detenzione per gli immigrati senza permesso di soggiorno, e ancora il diritto di cittadinanza per chi nasce e cresce in questo paese, per una società aperta libera e solidale.