Le torture del clan Sanfilippo viste dal figlio del boss «L’inferno con la sega. Il naso, le orecchie e le dita»

«Calogero sentiva le voci, è salito sopra, nella camera, e l’ha trovato che lo stavano sirrannu». Mazzarino non somiglia a Derry, come d’altronde la provincia di Caltanissetta non ha niente da spartire con lo stato americano del Maine. Eppure, nell’estate del 1991, il piccolo centro agricolo si è trasformò nella cittadina immaginaria in cui sono ambientati tanti romanzi di Stephen King, il maestro dell’horror. Calogero è figlio di Totò Sanfilippo, il boss della Stidda che comanda a Mazzarino. La sua è una famiglia di mafia: il potere ereditato dal padre, il clan popolato dai familiari più stretti, a partire dai sei fratelli. Il 18 agosto di trent’anni fa, Calogero è a casa con papà e mamma. Mancano poche settimane al suo ottavo compleanno. Giuseppe, invece, il fratellino che è con lui, ne ha ancora sei. A casa ci sono pure gli zii Liborio e Andrea. Poi arriva anche lo zio Maurizio. È insieme a un giovane. Non è certo se Calogero sia lì quando quella persona che sembra un amico dello zio viene portata al piano di sopra, poco dopo però ne vedrà il corpo insanguinato. Mentre con una sega, il papà e gli zii lo torturano.

«C’era l’inferno… il naso, le orecchie, le dita per farlo parlare. Non ha parlato, non ne sapeva niente, ma ormai che l’aveva sotto lo lasciava andare?» A ricostruire quella giornata, 27 anni dopo, è stata Beatrice Medicea, la moglie del capomafia che da vent’anni è in carcere per scontare l’ergastolo per un altro omicidio. La donna, madre di Calogero, è tra le 37 persone arrestate venerdì nel maxi-blitz dei carabinieri che ha azzerato il gruppo criminale attivo a Mazzarino e legato alla Stidda. Grazie alla sua voce, intercettata mentre è a casa della sorella, i magistrati della Dda di Caltanissetta sono riusciti a risolvere due casi di lupara bianca. O, come li chiamerebbe Stephen King, due cold case: gli omicidi di Benedetto Bonaffini e Luigi La Bella. Il primo sparito nel nulla a fine primavera del 1984, il secondo, come detto, poco dopo il ferragosto ’91. A tradire la moglie del capomafia è stata la curiosità di un nipote – Samuel Fontana, anche lui arrestato – interessato a conoscere la pericolosità di Andrea Sanfilippo, uno dei fratelli del boss, che nel 2018 era stato da poco scarcerato. «Un mulo è. Sembra tranquillo, ma è tagliente. Ai tempi non si spaventava, come lo zio Totò», dice Beatrice Medicea del cognato, sottovalutando la possibilità che quella conversazione possa essere ascoltata dalle forze dell’ordine.

A raccontare ciò che era accaduto a Luigi La Bella – conosciuto come Tavulidda – era stato in precedenza Gaetano Branciforti, un ex soldato del clan Sanfilippo all’epoca del patriarca Calogero e poi diventato collaboratore di giustizia. L’uomo, già a metà anni Novanta, aveva rivelato di avere saputo da Maurizio Sanfilippo che La Bella, 28enne, era stato attirato a casa del boss con una scusa: conoscendone la passione per la marijuana, gli avevano promesso qualche spinello. La trappola era stata ideata per estorcergli una confessione: i Sanfilippo erano convinti che La Bella avesse fatto un ruolo, forse come vedetta, in un agguato mortale a due uomini del clan. Il corpo del 28enne era stato poi gettato in un pozzo artesiano. Tuttavia non era stato possibile verificare la versione del collaboratore Branciforti e così l’indagine era stata archiviata.

Quei riscontri sono arrivati nel 2018 dalla bocca della moglie di Totò Sanfilippo. Al nipote Beatrice Medicea racconta che quel giorno il marito le aveva detto di allontanarsi dall’abitazione e portare con sé i figli, ma lei aveva deciso di rimanere: «Gli ho detto: “Dove minchia me ne vado? Con gli arresti domiciliari (a cui era sottoposto il boss, ndr) vengono da un minuto all’altro i carabinieri». Decenni dopo, la donna si dice pentita: «Se la vedeva lui, sono stata babba», commenta. Anche nella consapevolezza che ad assistere alle sevizie era stato per poco anche il figlio maggiore. «Per questo Calogero, appena arrivava là, scappava», dice facendo riferimento alla paura provata dal bambino passando davanti alla stanza.

Sette anni prima era toccato a Benedetto Bonaffini. Conosciuto come Manomozza, fa il manovale al Nord e da poco è tornato in Sicilia. A metà giugno del 1984, il 22enne esce di casa per andare in un bar del paese e non torna più a casa. Qualche giorno dopo il padre va dalla famiglia Sanfilippo e dice al patriarca Calogero di essere preoccupato per la sparizione del figlio. Tra i primi a dirsi disponibile a fare le ricerche c’è proprio Salvatore. «Qual è il problema? Ora si va a vedere», avrebbe detto al padre di Manomozza. Il racconto di quello che accadde 37 anni fa a Mazzarino è sempre di Beatrice Medicea. La donna rivela i dettagli nel corso della stessa conversazione in cui parla dell’omicidio La Bella, dicendo che all’epoca era incinta del secondogenito. «Vivo se l’è portato. Chissà quante gliene ha date», aggiunge la moglie del boss.

Anche di questo delitto aveva parlato negli anni Novanta il collaboratore Branciforti. L’ex soldato del clan aveva detto che Bonaffini era stato ucciso, perché sospettato di volersi mettere contro i Sanfilippo. Proposito che avrebbe fatto circolare in pubblico: «Si era messo dici d’accordo che doveva sparare a qualcuno di noi», è la confessione che Branciforti dice di avere raccolto dallo stesso Totò Sanfilippo. Per questo Manomozza era stato attirato in un tranello, con la complicità di un suo amico, Peppe Varsalona. Secondo Il collaboratore, il boss e il fratello Liborio, sulla cui presenza non ci sono ulteriori riscontri, avrebbero portato Bonaffini in aperta campagna, in contrada Salomone. Qui era stato strangolato e poi seppellito in una buca che si era rivelata troppo piccola. Per questo, successivamente Sanfilippo era tornato sul posto per spostare il cadavere.

A finire in carcere nel blitz Chimera sono stati anche Calogero e Giuseppe Sanfilippo, i figli del boss che all’epoca dei due delitti erano dei bambini. Sono accusati di avere preso in mano le redini del clan, continuando comunque ad avere nel padre, che trascorre le proprie giornate nel carcere di Sulmona, un punto di riferimento. Il boss, dal canto suo, sembra già guardare al futuro della famiglia. Nel corso di un colloquio con i familiari all’interno del penitenziario, Sanfilippo, prima si compiace nel sentire il nipotino dire che «il nonno ha la laurea del rispetto», e poi aggiunge: «Sì, nipote mio, prima di tutto mi sono preso la laurea di chirurgo senza anestesia».


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