Nell'emergenza non si parla di esami autoptici. E non se ne fanno. In generale il rapporto con le salme è proibito, anche se l'Oms non lo vieta. In ambito scientifico si discute dell'utilità di cambiare direzione. E da Catania il professore Pomara lancia un appello
Corpi negati e niente autopsie sui morti da Covid-19 L’esperto: «Sbagliamo, avremmo informazioni preziose»
«Dai morti si impara». Nel novembre del 2019, circa un mese prima della comparsa del Covid-19 in Cina, il The New England Journal of medicine, considerata la Bibbia per la medicina mondiale, titolava così un articolo sull’importanza delle autopsie sui cadaveri ai fini di conoscere e studiare le malattie. Anche quelle di tipo infettivo. «Studi hanno più volte dimostrato che casi di errori nelle diagnosi o diagnosi non riconosciute non sono diminuite nel tempo – spiega il documento – Una stima spesso citata è che nel 30 per cento dei casi l’autopsia ha svelato un errore di diagnosi».
Durante l’emergenza che stiamo vivendo, però, di autopsie non si parla. E non se ne fanno. Anzi, più in generale il rapporto con la morte e con i morti da Covid-19 è negato, proibito. Si muore lontano dai familiari, a volte sono i medici e gli infermieri a dare il conforto finale, e anche l’ultimo saluto al corpo ormai senza vita viene rimandato a data da destinarsi.
«Abbamo dimenticato quanto le autopsie siano state utili in altre epidemie, per l’ebola ad esempio ma anche per la mucca pazza», spiega Cristoforo Pomara, ordinario di Medicina legale al Policlinico di Catania, esperto in materia avendole dedicato parte della sua carriera con decine di pubblicazioni internazionali. «In Italia ha prevalso l’orientamento, indicato dal comitato tecnico scientifico nazionale e dal Royal College of Pathologists di Londra secondo il quale l’autopsia non è ritenuta indispensabile, anche in Italia viene sconsigliata a causa di potenziali rischi. Ma anche su questo andrebbe fatta chiarezza. Dal mio punto di vista è un incredibile errore e un torto alla grande tradizione Italiana».
L’Organizzazione mondiale della sanità, infatti, nel documento pubblicato il 24 marzo a proposito della gestione dei morti da Covid-19, non solo indica la possibilità di svolgere autopsie «con le stesse misure di sicurezza usate per i morti di qualunque altra malattia respiratoria acuta infettiva», ma sottolinea che «i familiari e gli amici possono vedere i corpi dei loro cari defunti, anche se non possono né toccarli né baciarli». Una possibilità che in Italia è stata vietata per timore di contagi. In alcuni casi addirittura la paura ha spinto le famiglie a lasciare i cadaveri negli ospedali.
Ma perché le autopsie sono così importanti? Perché sollevare un tema che – quando ancora non è stata perfezionata una terapia efficace né tantomeno un vaccino – può sembrare secondario? «Molti dei morti che conteggiamo nel bilancio del Covid-19 – spiega Pomara, che fa anche parte del comitato tecnico scientifico di cui si avvale la Regione Siciliana – erano anziani con diverse patologie. Possiamo dire con certezza che sono morti per il Covid-19? No, possiamo affermare che sono morti in presenza del Covid-19. Non posso sapere se sarebbero sopravvissuti qualora fossero stati colpiti da una polmonite di tipo diverso. Il punto è proprio questo: non conosciamo l’impatto di questo virus su un organo rispetto ad un altro o per infezione di un altro virus o di un batterio. Il gold standard dell’accertamento della causa di morte è l’autopsia – continua – e noi, lo ripeto, stiamo facendo un grave errore a rinunciare a questa indagine fondamentale, perché, come è stato per altre epidemie, ne ricaveremmo informazioni utili sia per la terapia che per prevenire l’evoluzione e la pericolosità del virus».
In Italia da questo punto di vista qualcosa si muove grazie alla buona volontà di singoli medici: a Torino e a Roma ad esempio. «Ma in Sicilia non ci manca niente – insiste Pomara – abbiamo esperti di anatomia molecolare e virologi di fama internazionale. Esistono pure le sale ad alto contenimento di rischio batteriologico dove si devono svolgere questi esami. In alcuni casi andrebbero solo cerificate. Confido molto nella Protezione civile e nelle tende a biocontenimento che darebbero una possibilità in più. Il gap da colmare – conclude – è piuttosto di tipo culturale: ancora tanto a livello nazionale che internazionale si esorcizza troppo questo esame a fini diagnostici pensando che esso sia solo demandato a fini giudiziari. Questo però è il Paese di Leonardo da Vinci. Non aggiungo altro».