Ammonta a tanto il patrimonio sequestrato dalla guardia di finanza alla potente famiglia messinese. L'inchiesta riguarda il sistema che l'ex parlamentare nazionale - già condannato a undici anni per lo scandalo Formazione - avrebbe creato, grazie anche al neo-eletto all'Ars, per evitare che le risorse venissero congelate
Sequestrati oltre cento milioni di euro ai Genovese Padre e figlio deputato sono indagati per riciclaggio
Riciclaggio e sottrazione fraudolenta di beni. Queste le accuse rivolte dalla Procura di Messina al neodeputato regionale di Forza Italia Luigi Genovese, il figlio dell’ex deputato nazionale Francantonio, già condannato in primo grado a undici anni per lo scandalo Formazione. L’inchiesta fa luce sulla gestione del patrimonio della potente famiglia messinese e ha portato al sequestro – eseguito dalla guardia di finanza su disposizione del gip Salvatore Mastroeni – di società di capitali, conti correnti e beni mobili e immobili per un valore di oltre cento milioni di euro. Al giovane politico forzista, che è stato eletto con oltre 17mila preferenze, è contestata la compartecipazione nel sistema che avrebbe permesso alla famiglia di sottrarre denaro all’Erario.
Il lavoro degli inquirenti è nato dal rinvenimento di 16 milioni di euro depositati presso la società Credit Suisse Life Bermuda ltd, parte dei quali successivamente è stata trasferita alla società panamense Palmarich Investments, con i soldi che dalla Svizzera sono arrivati a Montecarlo. La società sarebbe risultata sotto il controllo dei genitori di Luigi Genovese, il già citato padre Francantonio e la moglie Chiara Schirò. La restante parte sarebbe invece rientrata in Italia, con Genovese che ha provato a spiegare l’origine riconducendola a sua volta al proprio padre, oggi deceduto, senza però che le verifiche delle Fiamme Gialle abbiano accertato la verosimiglianza della versione.
Alcuni dei reati contestati sarebbero stati commessi anche nel momento in cui la famiglia ha dichiarato di volere regolarizzare la propria posizione con il fisco, nei confronti del quale i Genovese erano in debito di decine di milioni. A quel punto, stando alla ricostruzione degli inquirenti, si sarebbe messa in moto una nuova attività di riciclaggio, con una serie di operazioni immobiliari utili a trasferire a terzi beni immobili e disponibilità finanziarie così da evitare un eventuale sequestro dei 16 milioni e al contempo sottrarsi dal pagamento delle imposte e delle sanzioni che arrivavano a 25 milioni di euro.
Funzionale a questo obiettivo sarebbero state le società Ge.Fin srl – adesso L&A Group srl – e Ge.Pa. srl, con Genovese senior che avrebbe trasferito le proprie quote al figlio Luigi. L’ingresso del 21enne nelle due compagini societarie sarebbe avvenuto con il meccanismo cosiddetto dell’altalena: «Dapprima è stata deliberata la riduzione del capitale sociale delle medesime società per far fronte alle perdite artificiosamente generate dagli stessi indagati – scrive la guardia di finanza -. Successivamente è stato disposto il ripianamento delle stesse attraverso un nuovo versamento di capitale a carico dei soci. In tali circostanze, anziché provvedere in prima persona, nonostante il comprovato possesso di risorse finanziarie, l’indagato (Genovese senior) ha dichiarato di rinunciare alla qualità di socio per mancanza dei fondi necessari per partecipare all’aumento di capitale (poche decine di migliaia di euro), permettendo così, ex novo, l’ingresso in società del figlio». Questo sarebbe servito, tra l’altro, a «vanificare gli effetti del pignoramento che sulle sue quote era stato effettuato da Riscossione Sicilia». I beni sequestrati sono riconducibili – oltre che a Francantonio e Luigi Genovese – anche alla moglie del primo Chiara Schirò, alla sorella Rosalia Genovese e al nipote Marco Lampuri.
Tra i primi a commentare il provvedimento del Tribunale, il legale dei Genovese: «Non ho ancora avuto modo di leggere né la richiesta dei pubblici ministeri né, tantomeno, gli esiti delle attività di indagine che, della richiesta, costituiscono il necessario presupposto – dichiara l’avvocato Nino Favazzo -. Tuttavia, senza voler immaginare scenari complottistici, di certo colpisce la tempistica del provvedimento che, in relazione a una notizia di reato risalente a circa tre anni addietro viene, forse richiesto, ma certamente emesso dopo che la dottoressa Chiara Schirò ha definitivamente regolarizzato la propria posizione con lo Stato italiano versando quanto dovuto a titolo di imposta sanzioni ed interessi ed all’indomani della recente tornata elettorale». Da parte sua il deputato regionale ha detto: «Anche se la tempistica di questo provvedimento può apparire sospetta, voglio credere che non vi sia alcuna connessione con la mia recente elezione all’Assemblea regionale siciliana. Per quanto detto, non consentirò nessuna eventuale strumentalizzazione in chiave politica».