Il ruolo di Rosalia Messina Denaro: i pizzini che hanno tradito Fragolone nascosti dove la donna stirava

Rosetta, quando si trattava di cose di famiglia. Fragolone, quando doveva occuparsi degli affari del clan. È stata questa, secondo gli investigatori, la doppia vita degli ultimi anni di Rosalia Messina Denaro, 68 anni da compiere tra poco più di una settimana, la più grande delle quattro sorelle del latitante Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio di quest’anno dopo trent’anni di latitanza. Un destino adesso condiviso dalla sorella, per cui sono scattate stamattina le manette. Non per il semplice favoreggiamento della latitanza del boss, ma con l’accusa di aver fatto parte attivamente di Cosa nostra. Seppur non da interna, in quanto donna e quindi non ammessa al rito ufficiale della punciuta. A lei spettava la rendicontazione di entrate e uscite, ma anche la gestione dei pizzini: «Bigliettini arrotolati, sigillati con il nastro adesivo, spesso veicolati e avvolti in piccoli pacchetti, in cui si fa ricorso a nomi in codice per indicare i mittenti, i destinatari e i terzi», si legge negli atti. Nomi di fantasia che spesso rimandano alla frutta, da Ciliegia a Mela, passando per Parmigiano e Condor. Messaggi «consegnati brevi manu da una catena, più o meno lunga, di soggetti di comprovata fiducia»: quelli che Matteo Messina Denaro chiamava appunto tramiti.

Il pizzino che ha incastrato il latitante

Una catena rodata a cui è bastata però una sola falla per portare all’arresto del boss e, oggi, della sorella. Tutto comincia infatti a dicembre del 2022, quando gli investigatori, impegnati a montare delle microspie nella casa di Rosalia Messina Denaro a Castelvetrano, trovano un appunto a proposito delle condizioni di salute di una persona non indicata. Un foglietto all’interno di una gamba cava di una sedia
di alluminio
, lo stesso perfetto nascondiglio dove i militari avrebbero voluto installare proprio il sistema di ascolto. Solo il primo dei punti segreti poi scoperti, tutti simili tra loro: dalle gambe del tavolo in cui era solita stirare la donna allo stesso asse da stiro. Da lì, cercando nelle banche dati sanitarie e incrociando i dati forniti dal pizzino sulle caratteristiche della malattia e le date delle operazioni, i Ros dei Carabinieri sono arrivati all’ormai noto – e anche lui arrestato – Andrea Bonafede in cura alla clinica palermitana La Maddalena, rivelatosi poi essere il boss trapanese. Eppure il capomafia era sempre stato attento, dando come regola assoluta per tutti quella di bruciare o comunque distruggere i biglietti ricevuti, subito dopo averli letti. A fare eccezione poteva essere solo lui: ritenuto abbastanza nascosto e comunque costretto a tenere traccia delle conversazioni come libro mastro delle questioni da risolvere e dei conti da gestire. Ed è così che appunto nei covi del latitante vengono scoperti diversi altri biglietti.

L’«ortodossia mafiosa» di Rosalia

A disubbidire alla regola è stata però proprio la sorella Rosalia, con l’abitudine di trascrivere il contenuto di alcuni messaggi per tenerne memoria. Proprio lei, ultima – in ordine di tempo – delle staffette mafiose del boss. Compito già svolto nel tempo, come si ricorda negli atti, «da due dei cinque fratelli del latitante, oltre che dai cognati Filippo Guttadauro, marito di Rosetta; Vincenzo Panicola, marito di Patrizia; Rosario Allegra, marito di Giovanna e Gaspare Como, marito di Bice; tutti tratti in arresto nel corso degli ultimi anni e detenuti». Adesso toccava a lei, Rosalia, descritta come una «donna di origini e tradizioni tutte ispirate da una ortodossa e granitica cultura mafiosa». Che l’avrebbe resa negli anni «paziente tessitrice dei conflitti tra i parenti, riservata veicolatrice delle decisioni del latitante e vera e propria cassiera, incaricata dal fratello di ricevere ingenti somme di denaro, custodirle, rendicontarle e all’occorrenza distribuirle. E, infine, ma non per ultimo, di canale di smistamento dei pizzini tra il latitante e altri associati mafiosi».

I rendiconti del clan

Ed è proprio sul ruolo di contabile del clan che si concentra la maggiore attenzione degli investigatori, basandosi sul numero e l’accuratezza di biglietti a tema trovati nelle varie case. Dai titoli chiari – «finale cassa» – con indicazione di mese e anno; cifre mensili dai 60 agli 80mila euro; e uscite con l’annotazione di numeri e destinatari: oltre diecimila euro al mese, ad esempio per Patrizia o per l’Avv. Soldi da dare ma anche da prendere. Come i 40mila euro da esigere forse, secondo la ricostruzione degli inquirenti, da un imprenditore. «Tu con lui devi parlarci subito e gli dai tre mesi di tempo, a settembre deve essere tutto concluso – scrive il capomafia – Deve fare dosi da cinquemila euro e ogni volta li dà a Fragolina, che li darà a te ma in dosi ancora più piccole, cioè di 2500 euro. Ti ci vorrà più tempo, ma è il modo più sicuro. Digli che non può dire di no perché c’è una situazione di bisogno, digli che 40mila non cambiano la vita delle persone». Ma fanno pur sempre comodo per le spese di una latitanza e del clan.

Le strategie anti-intercettazioni

Non solo. A Rosetta toccava anche controllare che la rete intorno al latitante tenesse senza strappi o intrusioni indesiderate. Per questo le spiega come controllare l’eventuale presenza di microspie e telecamere in casa. «Per le telecamere ci deve essere un buco nella direzione dove vogliono guardare – appunta la donna in uno dei suoi promemoria ritrovati dai carabinieri – Ci sono tante cassette che loro montano e si chiamano cassette di rilancio segnale, senza queste loro non ricevono nessun segnale sia di microspie che di telecamere». Un appunto inquietante, secondo i magistrati, per i quali la conoscenza tecnica dimostrata «fa senza dubbio ipotizzare il potenziale coinvolgimento di appartenenti alle forze dell’ordine o di specialisti del settore, unici in possesso di tali preziose informazioni». Se poi le cose si fossero messe male, Rosalia sapeva come comunicarlo a distanza alla catena di tramiti del fratello latitante: anche appendendo uno o più stracci. «Il colore non importa – le fa sapere un non troppo esigente Matteo Messina Denaro – Io li ho dipinti di blu, ma può essere di qualsiasi colore. Messo in quel posto il reparto se ne accorge da lontano e non si avvicinerà ed andrà via».

Lo sfogo contro lo Stato

Eppure nella fitta corrispondenza epistolare c’è spazio anche per altro. Per considerazioni più intime, spesso nate dalla visione di approfondimenti televisivi sulla loro famiglia. Narrazioni giudicate come una persecuzione, senza alcun rispetto neanche davanti agli arresti, «sopraffatti da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo», scriveva Matteo Messina Denaro. Davanti al quale, secondo il boss, «essere incriminati di mafiosità è un onore».


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