Alla ricerca del bello tra i misteri di Antonio Presti e delle sua creazioni

COLORI, TAGLI DI LUCE, CONI D’OMBRA NEI 40 SCATTI FOTOGRAFICI DI GIOVANNI PEPI ALL’ATELIER SUL MARE di CASTEL DI TUSA

“Dice Verità chi dice Ombra”
Paul Celan

di Cettina Vivirito

“Luce e Segni” è il titolo della mostra fotografica del giornalista e condirettore del Giornale di Sicilia Giovanni Pepi, inaugurata domenica 8 giugno nei saloni dell’hotel “Atelier sul Mare” di Antonio Presti a Castel di Tusa: quaranta scatti che ripercorrono il viaggio del visitatore attraverso le stanze del museo-albergo progettate e create quali capolavori unici da diversi artisti internazionali.

Venti opere d’arte che, come sostiene lo stesso Presti, “sono pienamente realizzate solo entrando e abitando la camera. La presenza e l’uso delle stanze sono parte integrante e fondamentale di esse”.

Singolare e rara circostanza, quest’occasione espositiva di confronto tra l’arte contemporanea delle camere dell’Atelier del maestro Antonio Presti e quella di Giovanni Pepi, fotografo: due storie molto diverse, due percorsi molto distanti l’uno dall’altro e nondimeno capaci d’incontrarsi sul terreno comune della riflessione su temi cari alla poetica di entrambi, su ragioni e modalità proprie della ricerca di ciascuno, quindi sulle rispettive occorrenze immaginative, per quanto poi queste ultime siano condotte su esiti del tutto originali e solo apparentemente non assimilabili tra loro.

Partecipazione e disponibilità al dialogo che vanno oltre le apparenze e gli steccati del sistema dell’arte e dei suoi riti, che assecondano piuttosto una vocazione condivisa: la necessità di discutere delle proprie ricerche e scoprirne per questa via convergenze e divergenze, sollecitazioni e aperture, finalità e intenzioni, consegna di visioni che si tramutano in conoscenza.

“Scopro Atelier e Fiumara a cose fatte – racconta Pepi – quando le ragioni dell’arte si sono già imposte sui torti della politica. Penso ad una vacanza nello strano albergo voluto da un mecenate visionario. Vivo, invece, un indimenticabile incanto. Ogni stanza nasconde un’idea, un progetto, una visione, un sogno. Niente di uguale si vede da una porta all’altra”.

E d’altronde alla base dell’iniziativa c’è “la politica della bellezza” di Antonio Presti, ossia l’idea che l’arte e la bellezza abbiano in sé una forte valenza etica e politica, siano fonte di rinascita e progresso delle comunità e contribuiscano alla crescita dell’individuo.

“Sono qui per stupirmi -dice Presti-. Con lo stupore si inizia e anche con lo stupore si termina. Ma la bellezza si può manifestare solo se ti ricolleghi agli stati emozionali: al cuore, all’anima. Ed è in quel cuore e in quell’anima che si trova la condivisione di un futuro. Le opere così non sono il fine, ma il mezzo. La cultura deve impegnarsi a consegnare conoscenza alle nuove generazioni”.

Dal ruolo della Sicilia di oggi al sistema dell’arte contemporanea, senza mai perdere di vista come ogni esperienza sia entrata in relazione con il loro lavoro e abbia poi finito col condizionarlo, arricchendolo di nuove possibilità d’interpretazione, le fotografie di Giovanni Pepi, in sintonia perfetta coll’assunto prestiano, procedono verso l’immagine intesa come “esperienza”.

La consuetudine quotidiana con la macchina fotografica e l’attenzione costante alla realtà, persino nei suoi aspetti più marginali, negli interstizi della sua apparente inconsistenza – e di fatto, quest’ultima, spesso assai più autentica e trasparente di una visione nitida e integrale – si accoppiano bene con la professione di giornalista, con lo scrupoloso riscontro del dato da verificare, con l’accertamento puntuale di ogni dettaglio.

Da un’aderenza alle ragioni del vero, indagato quasi con piglio naturalista, la ricerca fotografica di Pepi si è andata progressivamente sfaldando a beneficio di una ripresa mobile, ugualmente sicura nella scelta di tagli e inquadrature, ma in questi scatti come rarefatta, liricamente sospesa tra rappresentazione oggettiva e interpretazione personale.

La necessità ricorrente di uno schermo agisce da filtro, quasi un dispositivo ottico privilegiato, per il raddoppiamento diaframmatico e la distanza fisica e insieme intellettuale che si stabilisce fra l’occhio e il mondo. Un esercizio sempre più raro di educazione dello sguardo, cui spesso ci si sottrae per paura, o disaffezione.

Ricercatezza, attenzione al dettaglio, controllo formale non lasciano spazio in queste foto a un’estetizzazione gratuita delle immagini: al contrario, le scarnificano da ogni velleitarismo a tutto vantaggio di una sobrietà cerebrale che è metodo di lavoro e insieme cifra stilistica di distinzione. Gli effetti così ottenuti, che raggiungono in queste foto una qualità pittorica, si fanno strada tra opacità e trasparenze, vischiose luminescenze e profondi coni d’ombra, disegnando raffinate geometrie come tracce che si danno sul piano indipendente della realtà dell’arte, forti di un’autonomia di linguaggio sempre più accessibile a tutti e pertanto ampiamente condivisa.

Il titolo scelto, Luce e Segni, è un preciso rimando a tutte quelle cose che giungono alla loro pienezza solo nascondendosi; a quell’ombra occultatrice che offre paradossalmente una grande chiarezza: la chiarezza di qualcosa di sempre sfuggente, che confluisce verso un’altra verità rispetto a quella immediatamente visibile. Imparare a vedere, a scoprire attraverso giochi di luce e giochi d’ombra il sotteso, la luce ritualizzata di Antonio Presti e l’ombra che dice “verità” nell’assunto di Paul Celan ripreso da Giovanni Pepi, conducono a sconvolgenti scoperte che, pur nella loro semplice immediatezza, abitualmente guardiamo, ma non vediamo.

Al centro dell’opera di Giovanni Pepi ci sono sempre stati, come ha avuto modo di affermare egli stesso, i concetti di limite, di soglia, di confine, di passaggio. In tutti i suoi scritti (“Metamorfosi, “Limina”, “Interstizi”) la realtà è qualcosa che si sottrae allo sguardo e sempre in modo duplice e ambiguo, quella duplicità, per intenderci, di cui parla Kafka in tutte le sue opere: la luce doppia, la luce del crepuscolo del mattino o della sera (nell’ombra inizia l’avventura di Joseph K. ne “Il Processo”). (sopra, foto tratta da blogtaormina)

Nella luce incerta e crepuscolare del mattino ha inizio la grande avventura di “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust. Lo “Zarathustra” di Nietzsche inizia anch’esso con una grande luce che annuncia il tramonto, quell’ombra che l’uomo deve attraversare per uscire dal nichilismo o meglio, per uscire da ciò che del nichilismo lo imprigiona; tutte opere care a Giovanni Pepi, per il quale l’arte è sì apparenza, ma trova la sua necessità da ciò che non appare, da ciò che rimane nascosto nell’ombra.

“Proust – sostiene Pepi – si riferisce al suo romanzo come l’esito della penombra che abbiamo attraversato. Ma noi non abbiamo mai finito di attraversarla, perché l’opera che risulta dal nostro transito ci riporta ad altra ombra ancora. Ci riporta verso quella luce che, come diceva Calderòn, “l’aria scrive con l’ombra”. Per Giovanni Pepi, la densità dell’ombra corrisponde alla densità del “senso”; nel suo aspetto cangiante e molteplice, si offre come occasione per riflettere sul fatto che le sue proiezioni sono generate da diverse prospettive di luce. E allora, anche la luce che genera l’ombra si apre a molte interpretazioni: le differenti Verità, la Saggezza, Dio, la Sapienza, l’incontro con l’Altro e la Compassione.

La dialettica tra luce e ombra torna così a rappresentare il dialogo tra vita e morte. L’ombra è seducente, immateriale, priva di consistenza. Cresce e decresce, scompare e ricompare, è attaccata al corpo ma non si lascia catturare. E’ anche oscurità che può proteggere e dominare. La sua doppia natura fonde insieme i due colori che la compongono: il giallo della luce del sole, il blu dell’ombra notturna che, fusi, danno luogo al verde. Ma si tratta di un colore assolutamente originario, il colore più presente sopra la terra a partire da quello stagno di rane dove si è coltivata la vita umana, la vita di ogni essere che ha camminato dal paradiso terrestre alla conquista della terra promessa.

Ha detto di lui un fotografo eccellente, Giuseppe Tornatore: “Per distrarsi dall’angoscia della cronaca di cui si occupa quotidianamente, il condirettore del ‘Giornale di Sicilia’ Giovanni Pepi si rifugia, quando può, nell’antica passione per la fotografia. Sembrerebbe il protagonista di un giallo di Sciascia o di un romanzo di Buzzati. E c’è qualcosa di letterario nel personaggio di un giornalista che cerca l’antidoto all’ossessione del mondo reale proprio in quell’arte la cui eccellenza consiste esattamente nella riproduzione della realtà. Il fatto è che attraverso il piccolo mirino della sua prima macchinetta di celluloide il giovane Pepi si rende conto ben presto che un obiettivo, a dispetto del nome che porta, non è mai imparziale. La lente infedele della macchina fotografica conferisce al fotografo il potere d’ingabbiare il mondo attraverso inaspettate metamorfosi grazie alle quali si può riprodurre persino l’invisibile che la realtà nasconde costantemente ai nostri occhi.”

La stessa riproduzione d’invisibile di cui ci fa dono il maestro Presti con la ripetizione del Rito della Luce anche quest’anno, durante il solstizio d’estate: un rito che accade in un tempo che non fugge, ma ritorna; quel tempo che consente di fermarsi a respirare, di ascoltare il battito del cuore, ammirare la Bellezza, quella che riconosce e asseconda il Ritmo Universale. Ogni anno ritornare sulla collina di Motta D’Affermo, dove si eleva la Piramide di Mauro Staccioli, l’ultima opera del Parco della Fiumara d’Arte: trenta metri di altezza a partire dalle profondità arcane, ferrose, misteriche di questo imponente tetraedro cavo in acciaio corten.

Missione il cui fine è la restituzione di bellezza fatta d’anima e luce, di senso poetico, alla terra siciliana; restituire quindi una direzione, un verso e del resto poesia, dal greco poiein, vuol dire creazione, quel fare intuitivo che ri-conosce, perchè conosce un’altra volta, e trasforma ogni evento in esperienza. Un fotografo e un maestro d’arte insieme per ribadire, con le parole di Antonio Presti che “Il nostro maggior nemico è l’ignoranza, e non mi riferisco a chi non conosce perché non sa, ma a chi sa e non vuol vedere. La conoscenza dà libertà. Con Giovanni Pepi si è creato un rapporto speciale, ho avuto modo di conoscerlo a fondo e di capire che è un vero fotografo perché nel suo lavoro c’è etica, e passione. Le foto colgono quel particolare che diventa unità e dunque valore aggiunto”.

Ecco quindi il dettaglio fotografico uscire dalle camere d’arte quasi con timidezza: è un oggetto, è un taglio di luce, è un colore impetuoso, in una complessa atmosfera artistica profondamente siciliana.

La Mostra, allestita nel salone dell’Atelier in via Cesare Battisti 4, realizzata con la collaborazione di Donatella Aiosa, rimarrà aperta sino al 14 settembre. Un grazie particolare va agli sponsor che hanno contribuito alla realizzazione della stessa e che per l’occasione hanno potuto divulgare ai tantissimi partecipanti la conoscenza di eccellenti prodotti locali fatti con metodi antichi e sani:

Azienda Agricola Casaleni, Cottanera, Gelateria e Pasticceria Di Noto Sicily, Pastificio Fratelli Gallo, Panificio Portera Maurizio, Azienda agricola Sammataro Agata, Antica Macelleria Sammataro Gaspare, Sapori e tradizioni Santino Miceli, oltre al Comune di Tusa, al Giornale di Sicilia, alla Carti Sud, a Donnafugata, alla Banca Don Rizzo e alla stessa Fiumara d’Arte.

 


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