Aiuto! Mi si è ristretta l’Università

I cambiamenti più grossi, a volte, sono quelli di cui nessuno parla; almeno finché non ci sbatti il muso. E’ così, probabilmente, per “l’architettura” dei nuovi corsi di laurea, della quale non si ha molta cognizione nella comunità studentesca (e persino tra diversi docenti). Sta di fatto che l’università – nel 2010-2011 – dovrebbe cambiare. A meno che non si voglia “cambiar tutto affinché tutto rimanga uguale”: nella terra dei Gattopardi questo sospetto ti viene. Ma l’ampiezza del taglio al finanziamento del sistema universitario imposto dalla Gelmini e l’adeguamento ai “requisiti minimi” introdotti dai precedenti ministri per regolare una situazione che nel tempo aveva sfiorato l’anarchia, assieme alla riduzione del numero di esami voluto da Mussi, stanno obbligando tutti gli atenei italiani a una completa revisione dei corsi di laurea “offerti” ai propri studenti.  

A Catania la situazione non è da meno. La commissione didattica d’Ateneo, coordinata dal delegato del Rettore Giuseppe Cozzo (già preside di Ingegneria), sta sforzandosi di pianificare i cambiamenti. Per il momento solo tre facoltà (con l’aggiunta di Giurisprudenza, che aveva anticipato per ragioni specifiche) hanno deliberato quali e quanti corsi di laurea verranno soppressi. Per le altre otto l’applicazione della nuova legge è stata rinviata al prossimo anno accademico, quando si avranno maggiori certezze sulla sorte delle sedi decentrate. Il professor Cozzo trasmette tranquillità (non è poco in un momento come questo) e si sforza di dare l’impressione che la commissione da lui presieduta stia tenendo ben fermo il timone. 

Che impatto avrà – in termini di sfoltimento dei corsi – l’applicazione del Decreto ministeriale 270? Quanti corsi saranno chiusi a Catania?
«Le uniche situazioni certe sono quelle delle facoltà che hanno avviato e portato a compimento l’adeguamento alla 270: Economia, Scienze matematiche, fisiche e naturali e Scienze della formazione. Giurisprudenza era partita prima, uniformandosi a un apposito decreto del 2006. Per queste quattro facoltà il quadro è completo. Soprattutto Economia ha sfoltito l’offerta formativa per rispettare i requisiti minimi. Già quest’anno abbiamo disattivato ben otto corsi rispetto all’anno scorso e l’anno prossimo saranno tre. La situazione è in divenire. C’è una diminuzione non solo per rispondere ai requisiti necessari, ma per un ripensamento del ruolo delle lauree di primo livello. Esse sono state raggruppate – laddove era possibile e opportuno – per far risaltare il fatto che sono preparatorie al secondo livello e comunque non conclusive».  

In cosa consiste il Decreto ministeriale 270?
«Viene richiesto un minimo di docenti di ruolo [12 per un corso triennale, NdR] e il numero massimo di iscritti è stabilito in relazione a quanti docenti di ruolo sono impegnati in quel determinato corso. La numerosità massima varia da 80 a 300 a secondo della classe di lauree. E’ un meccanismo un po’ complicato: il rapporto tra numero di docenti e tetto massimo delle iscrizioni varia non solo per corso ma anche per classe. Da qui nasce l’esigenza di chiudere alcuni corsi e in qualche caso anche la necessità di introdurre il numero programmato. Se la domanda è di 1000 studenti e la nostra capacità di accoglienza è di 500 studenti, a 500 dovremo dire che non c’è posto».  

Il numero programmato potrà limitarsi solo a “qualche caso”?
«Nel momento in cui inseriremo il numero programmato in corsi di laurea dove c’è una particolare carenza di docenti rispetto alla domanda, gli studenti esclusi  si sposteranno e metteranno in crisi corsi che attualmente non lo sono. E questo, come facile previsione, porterà all’adozione del numero programmato a tappeto. È come un domino. Del resto è un’esperienza già compiuta in altre sedi, ad esempio a Palermo».  

Come regolerete le iscrizioni? Molti non credono nell’equità o nell’efficacia dei quiz. 
«L’università deve indicare a monte quali sono i prerequisiti, qual è il tipo di preparazione che è consigliabile si debba avere per accedere, e c’è anche l’obbligo della verifica. Chi viene dallo scientifico ha una preparazione, chi dal classico ne ha un’altra… tutto ciò mette sia lo studente che i professori in seria difficoltà. Un docente che parla a persone con una formazione estremamente variegata e diversa, che linguaggio deve parlare? Ci vuole un qualcosa che li metta tutti su un livello confrontabile, omogeneo. Noi siamo chiamati a verificare il possesso dei requisiti che abbiamo richiesto: è un test di ingresso, ma non selettivo e faremo dei corsi di recupero per tutti quelli che non hanno superato il test. Ciò vale per qualunque corso di laurea. È pensabile che, come diceva qualche anno fa l’allora preside di Lettere, il 40% degli studenti della facoltà non abbia fatto il latino? Adesso il sistema consente comunque di iscriversi, ma dimostrando che si possiedano le conoscenze di base richieste per accedere a un determinato tipo di studi». 

Che farete per superare il fenomeno delle specialistiche “fotocopia” della triennale?  
«Questo è stato un errore di progettazione, perché si è proceduto a elaborare le lauree del secondo livello non tenendo conto di quelle di primo. C’è stata la corsa di tutte le discipline per essere inserite al primo e si è fatto del vecchio corso quinquennale una mini-fotocopia dei tre anni. Gli studenti non sono stati messi nelle condizioni di laurearsi in tempo ed è stato chiesto loro uno sforzo notevolissimo. Adesso, finalmente, la legge riduce drasticamente il numero degli esami. Lo sforzo che stiamo facendo è quello di dare alla triennale un significato giusto. Non è una laurea conclusiva, è un primo passo del proprio percorso formativo, deve dare le basi e la metodologia. Uno degli errori è che nessuno ha inserito i master nella propria offerta formativa in maniera stabile; devono invece diventare parte dell’offerta standard. Questo ci dà la possibilità di non creare un numero indefinito di corsi di primo livello».  

Infatti, uno dei problemi principali rimane quello dell’inserimento nel mondo del lavoro…
«C’è una situazione del mercato del lavoro che rende obiettivamente difficile l’inserimento. Lo studente allora punta al secondo livello. Si può non tenere conto di questo? Laddove c’è una professionalità molto settoriale, un anno – attraverso un master – è sufficiente per la formazione. È la cosa che purtroppo ancora manca nella nostra offerta. Il mio obiettivo è che almeno uno o due master di primo livello vengano inseriti in ogni facoltà come offerta ordinaria e non episodica. E ciò per rispettare lo spirito della riforma, che era quello di dare allo studente la possibilità di ritagliarsi il percorso sulla misura delle proprie esigenze ed aspirazioni. Il vecchio sistema questo non lo consentiva, era troppo statico e rigido».  

Considerato che per ogni laurea triennale serve un minimo di 12 docenti di ruolo, non dovrebbe essere difficile prevedere il numero massimo di immatricolati per ciascuna facoltà. Quali facoltà subiranno “dimagrimenti” forzati?   
«Quasi tutte dovranno ridurre l’offerta formativa attuale. I requisiti c’erano già prima, adesso vengono resi più stringenti e ci sono le sanzioni. Questo sta spingendo a fare “pulizie” perché non è serio mantenere corsi che non hanno la docenza necessaria in termini numerici e qualitativi. L’obiettivo di questo Ateneo è quello di avere requisiti di qualità, non quelli necessari. Scienze politiche – ad esempio – sta rivedendo l’offerta già sulla base dei parametri di qualità, per cui prevede di avere non dodici docenti di ruolo bensì 18. Questo è il messaggio che l’Ateneo sta mandando alle facoltà: noi vogliamo fare di più, nell’interesse dei nostri studenti. Puntare sulla qualità. E se questo significherà limitare gli accessi, riteniamo che si debba fare. Non possiamo permetterci il lusso di prendere in giro gli studenti e le loro famiglie; molto meglio avere uno sbarramento all’ingresso piuttosto che averlo nei fatti al primo o al secondo anno. Al primo anno c’è il 20% di abbandoni. Addirittura abbiamo un ulteriore 20% che non paga nemmeno la seconda rata. Dobbiamo avere tanti studenti quanti ne possiamo formare».  

C’è qualche altra facoltà che sta già puntando ad andare “oltre” i requisiti necessari?
«Più o meno tutti stanno pensando al raggiungimento dei requisiti di qualità. Già il fatto di programmare su basi reali è un miglioramento rispetto al passato».  

Sempre in base ai “requisiti necessari quantitativi” di docenza, e considerando gli squilibri tra facoltà e facoltà, la commissione didattica d’ateneo prevede una diminuzione del totale degli immatricolati al Siculorum Gymnasium? 
«I numeri che abbiamo sono tali da consentirci di accogliere settemila iscritti e attualmente ne abbiamo un po’ di più; però se si tengono conto gli abbandoni al primo anno, che a questo punto non dovrebbero più esserci, non dovrebbero restare fuori in molti».  

Benché la quota di bilancio proveniente dalle tasse di iscrizione sia una percentuale non molto alta, quali ripercussioni ne conseguiranno in termini economici? Meno iscritti, meno tasse?
«L’obiettivo non è quello di aumentare le tasse, però è evidente che se davvero il Governo continuerà a tagliare i trasferimenti alle università (quest’anno sono previsti 700milioni in meno, che per noi saranno venti milioni di euro) come faremo? Certamente il problema principale non saranno i mille-duemila studenti in meno. Il problema sorgerà quando – prima o poi succederà, per evitare l’effetto domino – il numero programmato sarà generalizzato. Per adesso è qualcosa di non certo, anche perché la domanda potrebbe auto-regolarsi».  

Non crede che l’istituzione di alcuni corsi di laurea interfacoltà potrebbe essere una soluzione per rendere ottimale la distribuzione dei docenti di alcuni settori disciplinari?
«È una cosa che auspichiamo, ma non è facile; non per cattiva volontà, ma per difficoltà oggettive. Abbiamo già qualche corso e speriamo di farne di nuovi, soprattutto nei campi che non sono palesemente riconducibili ad una facoltà. E’ complicato perché, anche quando ci si siede ad un tavolo animati dalle migliori intenzioni, non sempre di riesce a far convergere gli interlocutori su un progetto unico».  

Sarà mai possibile, secondo lei, un interfacoltà che racchiuda i corsi della classe 14 (comunicazione)?
«Ci stiamo provando [ride], anche se Lettere la sua offerta l’ha già elaborata e Lingue ha problemi legati alla situazione di Ragusa. È ancora tutto in divenire, fermo restando che entro gennaio dovremo avere il quadro definito. Al nostro interno siamo a buon punto, ma ci sono variabili legate alle decisioni dei consorzi».  

Che – soprattutto in alcuni settori – ci siano troppi docenti a contratto sembra un problema reale: come interverrete?  
«La docenza a contratto è uno strumento importante, ma che va usato con criterio. Molte volte si è fatto ricorso a questa soluzione perché la docenza di ruolo era insufficiente in termini numerici. Invece il ricorso all’esterno dovrebbe essere una norma (e lo è) laddove si tratti di trovare competenze che normalmente non si hanno all’interno dell’università, non può costituire uno strumento di ordinaria gestione».  

A volte, invece, la docenza a contratto nasconde il precariato della ricerca. Il problema è strettamente legato al turn-over.
«A partire dal 2013-14 ci sarà uno svuotamento di docenti di ruolo, e il ricambio va preparato. Il Governo non può pensare di aspettare che vadano in pensione gli attuali ultrasessantenni e poi aprire i concorsi. Bisogna che già da adesso entrino i nuovi ricercatori, che si formino. Purtroppo però le risorse adesso mancano e bisogna fare di necessità virtù. Non è in discussione la qualità dell’insegnamento dei docenti a contratto, mi dispiace che attribuire questa funzione, molte volte, sia l’unico modo per far sì che giovani studiosi validissimi continuino a lavorare all’università perché non c’è altra possibilità. Non è una cosa bella».  

Giurisprudenza si è orientata verso laurea quinquennale a ciclo unico. Prevede un percorso simile anche in altre facoltà?
«No, credo che il 3+2 vada salvaguardato. Ma fatto bene. Non è il 3+2 in quanto tale che è negativo; in qualche caso lo è stato perché lo abbiamo realizzato malamente, i correttivi previsti dalla 270 dovrebbero funzionare».  

Ci sono ancora quasi settemila iscritti al vecchio ordinamento. Che ne pensa di questo dato? 
«Abbiamo fatto già qualcosa. E’ stato proposto che i finanziamenti per il tutorato fossero destinati prioritariamente per accompagnare questi studenti all’esame. Abbiamo scoperto che più del 10% sono in difetto di pochi esami, abbiamo visto quali sono per concentrare gli sforzi e per fornire un sostegno proprio su questi insegnamenti. Ricordiamoci sempre, però, che si dice “aiutati che Dio t’aiuta”: l’università fa qualcosa, ma se lo studente è tale solo sulla carta… E’ un problema che abbiamo ben presente, ma che possiamo risolvere solo sollecitando l’impegno degli studenti interessati».  

Alcuni dei nostri lettori si sono chiesti se i rappresentanti studenteschi fanno sentire la propria voce in Commissione didattica. 
«Sono molto soddisfatto, sia del ruolo che hanno in Commissione paritetica che in Consiglio di amministrazione. Ci sono e vengono ascoltati, nella misura in cui sono disposti a condividere la responsabilità della decisione. E’ evidente che si può collaborare se non ci sono preconcetti: tutti i rappresentanti, indipendentemente dal colore, sono stati presenti, disponibili e d’accordo tra di loro. Molto collaborativi tra di loro e con l’amministrazione».

Il professor Cozzo si è congedato con questo implicito appello alla “condivisione delle responsabilità” da parte degli studenti. Al termine del lungo colloquio, al di là delle grandi capacità di rassicurazione del delegato alla didattica e del fascino esercitato dalla sua cortesia, rimangono molti interrogativi. Sarà davvero possibile evitare le strozzature e rendere così indolore l’adozione del numero programmato? I tagli al turnover dei docenti in che modo potranno conciliarsi con l’esigenza di qualità della didattica e della ricerca? Che forza avrà l’Ateneo nel promuovere la collaborazione interfacoltà? Si terrà conto dei precari della ricerca? Fino a che punto “la domanda” (da parte degli studenti e del mercato del lavoro) s’incontrerà con “l’offerta”, basata su ben precisi rapporti di forza accademici?  

Rimane – più forte di tutte – una perplessità: i delegati studenteschi, oltre a collaborare con i docenti ed a condividerne le responsabilità, saranno in grado di “rappresentarci”; cioè di informare e coinvolgere nelle decisioni la popolazione studentesca dell’Ateneo?


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