Era il 31 ottobre 1990 quando il direttore del personale dell'Acciaieria Megara muore a Catania. L'indagine viene archiviata. Adesso all'imprenditore sarà dedicata una delle zone più frequentate del Comune acese. «Io so chi ha ordinato l’uccisione di mio padre - racconta il figlio - l'ho scoperto anni dopo per caso da un pentito, ma i magistrati l'hanno ignorato»
Acireale, l’area Com dedicata a Francesco Vecchio Il figlio: «Ucciso dalla mafia, non c’è mai stato processo»
Una targa ad Acireale. Ripartirà da qui – a meno di inattese sorprese – il processo di radicazione nella memoria collettiva della figura di Francesco Vecchio, l’imprenditore acese ucciso il 31 ottobre 1990 nella zona industriale di Catania insieme ad Alessandro Rovetta, l’amministratore delegato dell’Acciaieria Megara. Da mano rimasta sconosciuta, ma su cui da sempre pesa l’ombra della mafia. In quella che rappresentava una delle più importanti aziende del Sud nel settore del ferro, con oltre 300 dipendenti, Vecchio svolgeva il ruolo di direttore del personale. A decidere di ricordarlo è stata negli ultimi giorni la commissione toponomastica recentemente nominata dal sindaco Roberto Barbagallo: a Vecchio verrà intitolato il piazzale Com, divenuto negli anni uno dei principali luoghi di ritrovo dei giovani. Un modo per evitare l’oblio su una vicenda che, seppure nella chiarezza dei fatti, a oggi non ha mai avuto un epilogo giudiziario. L’omicidio Vecchio-Rovetta è destinato infatti a essere uno dei pochi omicidi eccellenti rimasti senza un processo: «Inizio a rassegnarmi all’idea che non ci sarà mai un colpevole per quell’omicidio. Anche se in realtà io so chiaramente chi ha voluto la morte di mio padre», dichiara Salvatore Vecchio, uno dei figli dell’imprenditore assassinato.
Venticinquenne all’epoca dei fatti, da allora ha sempre cercato la verità su una vicenda che inizia nella tarda primavera del 1990 mentre in Italia fervono i preparativi per i mondiali di calcio: «Le prime intimidazioni – racconta – arrivano a cavallo tra maggio e giugno. Telefonate minatorie sia in azienda che a casa. Una volta sono stato io a rispondere: dicevano che se mio padre non avesse finito ci avrebbero ammazzati, che era un cornuto e doveva smetterla». Minacce che nel giro di pochi mesi avrebbero portato all’agguato, mentre Vecchio e Rovetta si trovavano a bordo della stessa auto all’uscita dello stabilimento. Un epilogo che nessuno di certo si sarebbe augurato ma che non si può dire non fosse ipotizzabile. Di quelle intimidazioni, infatti, Vecchio ne parla anche con le forze dell’ordine: «Mio padre denuncia quelle minacce – continua il racconto Salvatore – ma quando andiamo in questura, dopo l’omicidio, ci dicono che a loro non risulta nulla, che non hanno avuto alcun tipo di segnalazione da parte di mio padre, ma non è vero».
Ma cosa avrebbe dovuto smettere di fare il direttore del personale di un’azienda come l’Acciaieria Megara? Le risposte per Salvatore Vecchio sono più di una. La ditta, a quel tempo, risulta particolarmente appetibile per la mafia perché ha da poco ricevuto un importante finanziamento regionale di circa 60 miliardi di lire ed è in fase di ampliamento. Per quei lavori la Megara fa riferimento a una serie di cooperative al cui interno però la presenza della criminalità organizzata non è indifferente: «I problemi per mio padre iniziano quando gli viene affidata anche la gestione del personale delle cooperative, che fino a quel momento era stato sotto il controllo del direttore dell’ufficio tecnico. In quelle cooperative lavorano anche diversi detenuti con permessi speciali». Lavori, però, che vengono svolti soltanto sulla carta: «Larga parte di quei detenuti che risultano a lavoro, e che per questo vengono pagati – racconta Salvatore –, in realtà non vanno mai in cantiere. Tutto questo fino a quando mio padre non inizia a gestire direttamente il personale, adoperandosi affinché le cose cambino». Una presunta ingerenza che Francesco Vecchio ha pagato con la vita: «A volere la morte di mio padre è stato il clan Santapaola-Ercolano – dice sicuro il figlio – ma l’ho scoperto soltanto diciotto anni dopo l’omicidio e quasi casualmente».
Il riferimento è alle dichiarazioni di un pentito storico della mafia catanese, Maurizio Avola, che nel lontano 1994 racconta ai magistrati della Procura di Messina alcuni dettagli dell’omicidio Vecchio-Rovetta, facendo il nome, appunto, del principale sodalizio criminale catanese. Quelle rivelazioni vengono inviate ai colleghi catanesi, che però non le prendono particolarmente in considerazione o quantomeno non le approfondiscono: «Ho trovato lo stralcio di questo colloquio con Avola nel 2008, accedendo al fascicolo sull’omicidio di mio padre quando ormai le indagini erano state archiviate – racconta Vecchio –. Ho subito fatto richiesta di riapertura delle indagini ma mi è stato detto che a distanza di anni è difficile trovare un altro pentito che accrediti la versione di Avola, così da poter portare a dibattimento quelle accuse».
Non è facile vivere con la consapevolezza che difficilmente verrà fatta giustizia: «Io so chi ha ordinato l’uccisione di mio padre – continua – ma con molta probabilità non avrò mai la soddisfazione di assistere alla condanna dei colpevoli».
Ripercorrendo il passato, Vecchio ricorda come all’indomani dell’omicidio la solidarietà dalle parti sociali arriva ma svanisce presto: «Erano tempi difficili – commenta –. L’attenzione verso le vittime di mafia è diventata più alta soltanto dopo gli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quanto accaduto a mio padre ricorda da vicino la tragedia di Libero Grassi, solo che noi, come famiglia, all’epoca abbiamo deciso di non andare sui media, cercando in privato di ricostruire i pezzi di quella storia». Che tra non molto dovrebbe entrare a far parte della toponomastica acese: «Ricordare è importante e per il giorno dell’inaugurazione del piazzale intitolato a mio padre conto di poter portare ad Acireale don Luigi Ciotti (fondatore dell’associazione antimafie Libera, ndr) – conclude Salvatore Vecchio –. Tuttavia bisogna capire che la lotta alla mafia deve passare soprattutto da atti concreti e da un recupero di responsabilità da parte di tutti. La retorica dell’antimafia non ha più senso: certi messaggi, certe parole vengono usati dagli stessi mafiosi per legittimare le proprie attività».