A casa l’equipaggio del peschereccio sequestrato in Egitto «Vittime di abuso di potere, ora stiamo lontani dalla Libia»

È finalmente tornato a casa, a Riposto, l’equipaggio del peschereccio Jonathan. È una delle due imbarcazioni che, il mese scorso, era stata sequestrata dalla marina militare egiziana, assieme all’Alba chiara di Siracusa. Rilasciati il giorno dopo, i pescatori si erano immediatamente diretti verso le acque cretesi per proseguire le attività di pesca. Per rimediare, almeno parzialmente, al danno economico causato dalla sottrazione, voluta dalle autorità egiziane, di tutto il pescato fino ad allora raccolto. E adesso che sono tornati in Sicilia, dopo più di un mese, i membri dell’equipaggio raccontano: «Le armi puntate addosso, il peschereccio sequestrato, ci hanno lasciato il segno». E dalle loro parole viene fuori un quadro dei pericoli delle acque internazionali: da un lato l’avanzata dei gruppi terroristici Isis in Libia, dall’altro le «personali» interpretazioni delle norme comunitarie sulla pesca attuate dai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

«Siamo stati vittima di un atto di vero e proprio abuso di potere che mai ci saremmo aspettati», racconta Pasquale Condorelli, armatore del Jonathan. «Verso le 13 stavamo pescando oltre le 40 miglia nautiche dalle coste dell’Egitto, quindi in perfetta conformità con le norme internazionali, quando siamo stati agganciati da un’imbarcazione della Marina militare egiziana. I militari, puntandoci i mitragliatori contro, sono saliti sulla nostra barca e ci hanno perquisiti. Successivamente siamo stati condotti verso la costa». Quelli descritti dai pescatori sono attimi di panico e sbigottimento. Il Jonathan è un semplice peschereccio, tra gli interrogativi ancora insoluti ci sono i motivi di un simile comportamento dei militari. A questo si aggiunge un altro elemento: la grossa perdita economica, conseguente al sequestro del pescato, che ha costretto l’equipaggio a rimettersi a lavoro subito dopo il rilascio, rimanendo lontani da casa per oltre un mese. 

«Abbiamo passato due ore in mare con i mitra sempre puntati addosso – continua  Condorelli – e sono riuscito a comunicare velocemente con mio fratello prima di sbarcare a terra, avendo solo il tempo di chiedere aiuto. Alle 23 ho parlato per la prima volta con mia moglie, e solo in quel momento sono venuto a sapere che la Farnesina si era messa a lavoro per aiutarci. Prima di allora ci sentivamo completamente soli e in balìa degli eventi. Alle due e mezza del mattino siamo sbarcati ad Alessandria, dove siamo stati nuovamente perquisiti mentre ci veniva tolta ogni cosa, telefonini inclusi. Ci hanno dato delle coperte e riportati sulle barche per farci passare la notte lì. La mia più grande paura era che mi sequestrassero la barca, a quel punto sarei stato davvero rovinato». Nel frattempo, ogni centimetro e apparecchiatura del Jonathan veniva fotografato. E l’equipaggio, a detta di Condorelli, prima di essere lasciato andare è stato costretto a firmare dei documenti di diffida che da adesso costringono il natante a richiedere l’autorizzazione alle autorità locali prima di raggiungere le cento miglia nautiche dalle coste dell’Egitto. 

«Verso le 16.30 – conclude Condorelli – siamo stati rilasciati, ma la vicenda ha creato conseguenze notevoli dal punto di vista emotivo ed economico. Le armi puntate addosso, il pescato sequestrato e la diffida sono cose che hanno lasciato il segno e che mi costringono a limitare notevolmente le aree in cui posso pescare, causandomi danni notevoli. Come se non bastasse, da adesso dobbiamo guardaci anche dalla minaccia Isis. Dobbiamo stare categoricamente lontani dalle coste libiche perché rischiose, mentre sulle nostre teste passano di continuo elicotteri che monitorano le acque e le imbarcazioni che le attraversano. Alcuni rappresentanti della Nato ci hanno consegnato un numero di telefono da contattare in caso di necessità, e questo basta a comprendere il livello del rischio che corriamo». 


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