Quarantuno fotografie, il lavoro di anni, tra Nigeria, Ghana e Palermo e delle tante giovani strappate alle loro famiglie con una falsa promessa di libertà e finite poi sulla strada a lavorare come schiave del sesso
Il successo di Oriri, la mostra sulla tratta delle donne Bellina: «Ho ripercorso il loro viaggio al contrario»
In un periodo difficile, soprattutto per il settore della cultura, una mostra a Palermo sta facendo parlare di sé a suon di visitatori. Si tratta di Oriri e racconta il lavoro del fotoreporter trapanese Francesco Bellina, che ha documentato il viaggio delle donne nigeriane, strappate spesso con l’inganno da quella che era la loro casa con la promessa di un futuro roseo in un posto migliore, che ben presto si tramuta in un presente da incubo, costrette a prostituirsi sotto la minaccia di una maledizione tramite un rito tribale. Questo e molto altro è Oriri, che nella lingua Biri significa spiriti, incubi, in mostra a palazzo Sant’Elia fino a fine ottobre.
«Sta andando molto bene – racconta Bellina a MeridioNews – abbiamo avuto migliaia di visitatori. Già il primo giorno c’era gente che è dovuta rimanere fuori. Numeri veramente ottimi. Per questo devo ringraziare anche Fondazione Sant’Elia e comune di Palermo, che hanno finanziato la mostra e la Fondazione Sicilia, che ha finanziato una parte del lavoro di produzione. Un progetto fatto insieme al Porco Rosso e a Giacomo Zandonini, il giornalista con cui sono andato in questi luoghi: 41 fotografie che raccontano il viaggio che ho fatto, opposto a quello delle vittime di tratta: da Palermo a Benin City».
«La cosa che mi ha fatto più piacere è stato vedere la presidente dell’associazione delle Donne di Benin City commuoversi di fronte alla foto della ragazza che io e giacomo abbiamo aiutato a scappare», prosegue il reporter. Il riferimento è a una delle foto, che ritrae una giovane donna che ha accettato di farsi fotografare in cambio di una speranza di salvezza. «Portata in Ghana con la bugia di fare la parrucchiera, subito appena arrivata i trafficanti le hanno sequestrato i documenti e le hanno dato dei preservativi. E lei lì ha cominciato a piangere, a urlare e ha chiesto di tornare a casa sua, gliel’hanno impedito. Poi ha conosciuto me e Giacomo, l’ho portata fuori da questo locale, le ho detto che ero un fotoreporter e che avrei voluto parlare. «Please rescue me» ha risposto lei. Così, grazie alla rete di contatti che abbiamo costruito siamo riusciti a trovare un posto per lei. La foto risale all’anno successivo».
Poi, a distanza di quasi un altro anno, succede l’inaspettato. «Ero a palazzo Sant’Elia e stavo lavorando ai preparativi della mostra – dice ancora Bellina – Mentre appendevo la sua foto lei mi ha mandato un messaggio: “Finalmente ho aperto il mio negozio di parrucchieria”. Mi sono venuti i brividi. Ho pensato che se fare questa mostra voleva dire anche solo salvare questa donna, ne sarebbe comunque valsa la pena». Il primo incontro con una vittima di tratta, tuttavia, Bellina non l’ha avuto in Africa o a bordo della nave Mediterranea, ma a Palermo. «Qui per anni ho seguito la questione delle gang nigeriane e qui è stato il primo incontro con la prima vittima di tratta. A Palermo ho iniziato a ricostruire le dinamiche di quanto sta succedendo. E sempre qui ho avuto modo di conoscere persone straordinarie».
Nigeriani, ivoriani, ghanesi. Persone impegnate o meno. In tanti poi hanno deciso di andare a vedere la mostra. Una grande soddisfazione – la definisce il fotoreporter – È bello sia perché secondo me c’è un interesse sull’argomento, sia perché c’è un interesse sull’autore. Vedere tutta questa gente è una cosa che stupisce in ogni caso, anche perché le persone hanno voglia di avere delle mostre e vivere questi momenti che stavamo perdendo».