Trasformare una proprietà mafiosa in patrimonio comune, non ha solo un valore simbolico. «Rappresenta una grande opportunità di sviluppo di sviluppo politico, economico e non solo», spiegano i professori di UniCt che hanno condotto uno studio sul tema
Gli effetti concreti del riutilizzo sociale dei beni confiscati «Cambiano risultati elettorali e pure prezzi degli immobili»
All’origine della possibilità di trasformare un bene simbolo del potere mafioso in patrimonio comune, c’è l’intuizione di Pio La Torre che nel 1982, insieme all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni, ispira la prima legge sulla confisca dei beni. Il passo successivo, nel 1996, arriva con l’approvazione della legge sul loro riutilizzo sociale. Terreni, case, villette, aziende tolti alla criminalità organizzata si trasformano in luoghi della collettività. Un percorso che si rivela ancora lungo, tortuoso e pieno di situazioni paradossali. A causa di un sistema che, come ha detto anche il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro annunciando indagini sulle criticità di gestione, «si è rivelato profondamente inefficiente». Eppure, oltre ci sarebbe una rivoluzione non solo simbolica, ma che ha pure un impatto concreto su diversi aspetti della società, come ha dimostrato uno studio condotto dai professori Maurizio Caserta e Livio Ferrante del dipartimento di Economia e impresa dell’Università di Catania.
«I beni confiscati – spiegano i docenti – rappresentano una grande opportunità di sviluppo economico-sociale, specialmente per i nostri territori martoriati da una forte presenza mafiosa, ma gli effetti si vedono solo quando l’iter di affidamento si conclude». Cioè quando quelle che futuro proprietà dei mafiosi vengono riassegnate, specie se per fini sociali. Dalla libera concorrenza nel mercato ai prezzi di affitto e vendita degli immobili fino a cambiamenti di comportamenti durante le elezioni. «Bisogna partire dal presupposto che l’obiettivo primario della mafia è l’accumulazione di denaro e potere», afferma Ferrante. Potere per fare denaro e denaro per rafforzare il potere: un circolo perverso tra illegalità e riciclaggio per immettere soldi (anche sporchi) nei circuiti dell’economia legale. «La conseguenza sono ripercussioni negative sull’economia, la società, la politica, la pubblica amministrazione e le istituzioni in generale», analizzano i professori che hanno presentato parte dei risultati della ricerca durante il dibattito organizzato da Asaec e Unict.
Lo studio ha preso in esame, con un approccio di tipo diff-in-diff (una tecnica statistica utilizzata soprattutto nelle scienze sociali che calcola l’effetto di una variabile su un risultato), Comuni in cui è intervenuto o meno un provvedimento di confisca e la successiva riassegnazione di beni. Il dato più rilevante è quello che riguarda le elezioni. Una parte dell’indagine, infatti, si è occupata del livello di concentrazione di voto nelle elezioni regionali siciliane per i candidati per l’Ars negli anni 2006-2017 (le ultime quattro tornate elettorali). «La cronaca giudiziaria – sottolineano Caserta e Ferrante – è stata costellata da processi e condanne riguardanti i rapporti tra vari deputati regionali e la mafia che usa il proprio potere anche per spostare voti a favore di alcuni candidati più vicini». Nei territori dove la criminalità organizzata è più influente, di conseguenza, è più alto anche il livello di concentrazione di voto. «I provvedimenti di riassegnazione di beni confiscati alla mafia portano a una diminuzione della concentrazione di voti – analizzano – ma solo se sono destinati a finalità sociali. Né lo scioglimento dei Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, né tanto meno la vendita o la riassegnazione al patrimonio dello Stato dei beni confiscati hanno un impatto nei comportamenti elettorali».
Non solo a livello regionale, anche sui risultati delle elezioni amministrative (quelle prese in esame vanno dal 1986 al 2019) si notano dei cambiamenti legati alla riassegnazione dei beni confiscati alla mafia per finalità sociali o istituzionali: «Un maggior turnover degli eletti nei Consigli comunali – spiegano i docenti – diminuisce l’età media dei consiglieri, aumentano le donne elette al civico consesso (anche se non nel ruolo di sindaca, ndr) e aumenta, in generale, anche la quota di votanti». Dinamiche che si ripercuoto in modo diretto e tangibile sulla vita quotidiana di tutti i cittadini. «Ma non è il provvedimento di confisca del bene mafioso in sé che ha un effetto statisticamente significativo sui comportamenti elettorali – sottolineano i professori – quanto la destinazione per una finalità che favorisca la costruzione di un nuovo capitale umano nel territorio, minando il potere e il consenso sociale della mafia e mostrando l’esistenza di un’altra via percorribile».
Altre indagini hanno mostrato anche che nei Comuni siciliani (nel periodo compreso tra il 1991 e il 2011) i provvedimenti di confisca e riassegnazione di imprese mafiose, dopo un breve periodo di assestamento, portano a un più elevato livello di competizione e concorrenza di mercato, specie nel settore dell’edilizia. Inoltre, nei Comuni di piccole e medie dimensioni (al di sotto della soglia dei 50mila abitanti, tra il 2002 e il 2019) si possono notare delle differenze anche sui prezzi di affitto e vendita degli immobili commerciali. «L’esclusione di una impresa mafiosa dal mercato – spiegano i docenti – porta a un incremento del valore degli immobili commerciali compreso tra il 2 e il 3 per cento». Dati che danno il senso dell’impatto su aspetti socio-politico-economici. «Per questo, la strada da seguire è quella di contrastare ogni forma di attività produttiva di origine mafiosa che mina il funzionamento del mercato danneggiando il tessuto economico locale e puntare alla destinazione dei beni confiscati – concludono – per costruire una cultura sociale che contribuisca a sradicare la cultura mafiosa».