Ciancio perde la battaglia contro Report Gli autori: «Una legge difenda i giornalisti»

All’indomani di quel 15 marzo 2009, quando l’inchiesta di Report I Viceré ha scosso Catania, la sua querela era arrivata fulminea. Mario Ciancio Sanfilippo, imprenditore ed editore del quotidiano La Sicilia, le accuse di monopolio e affari poco limpidi non le aveva – prevedibilmente – digerite. Ma la richiesta di risarcimento da dieci milioni di euro è stata respinta dal giudice Damiana Colla del Tribunale di Roma che ha invece condannato l’imprenditore catanese al pagamento delle spese processuali, 30mila euro.

Pesanti le richieste dei legali di Ciancio: rimozione del servizio dal sito, multa per ogni giorno di ritardo, pubblicazione su tutte le testate Rai e sulle principali nazionali della sentenza per aver diffuso notizie «false ed espresse al di fuori dei limiti della continenza espositiva che deve caratterizzare il libero esercizio del diritto di critica tipico del giornalismo d’inchiesta». Richieste, secondo il giudice, non fondate. «Gli avvocati di Ciancio non si aspettavano che sarebbero arrivate 400 pagine in allegato che documentano quanto abbiamo detto», ribatte Antonio Condorelli, giornalista catanese collaboratore dell’inchiesta di Sigfrido Ranucci. Fanno parte del dossier non solo i documenti relativi ai dieci minuti dell’inchiesta andata in onda, ma anche quelli di tutte le 70 ore complessive di girato.

«La cosa importante che dimostra questa sentenza – continua Condorelli – è che citazioni e querele sono spesso pretestuose e vengono utilizzate come metodo intimidatorio». Della stessa opinione è Ranucci, co-autore di Report assieme a Milena Gabanelli. «L’intento di queste richieste è solo non far parlare di certi argomenti. L’azienda ha sempre avuto fiducia – precisa il giornalista romano – ma è difficile lavorare così». Se poi la redazione è quella dell’unico programma di inchieste nel panorama televisivo italiano, la situazione si fa complessa. «Abbiamo richieste pendenti per 285 milioni di euro», spiega Ranucci. «Non è abitudine di Report commentare le sentenze, ci atteniamo a quanto stabilito dal giudice. Non ci sarebbe altro da aggiungere», afferma.

Niente da aggiungere, anche perché nella sentenza del giudice romano si segue metodicamente il filo delle accuse rivolte all’imprenditore. Dal grand hotel San Pietro costruito a Taormina grazie ad un intervento ad hoc dall’assessorato regionale all’Ambiente alla mancata distribuzione del quotidiano La Repubblica nelle edicole catanesi, passando per l’acquisto dei diritti sulle dirette dei consigli comunali e le varianti che hanno permesso di trasformare terreni agricoli in edificabili. Per finire con il caso gravissimo della lettera del figlio del boss Nitto Santapaola, Vincenzo, pubblicata senza alcun commento sul quotidiano La Sicilia nonostante fosse detenuto in regime di carcere duro, e il rifiuto della pubblicazione del necrologio di Beppe Montana, il poliziotto ucciso dalla mafia nel 1985.

«Tutte le cose che abbiamo detto sono vere», afferma Antonio Condorelli. Anni di intrecci oscuri, sui quali la Procura sta indagando proprio in queste settimane. «Il giorno dopo la messa in onda – ricorda il giornalista – c’è stato un plotone d’esecuzione mediatico. Il sistema si è chiuso a riccio». Il principale quotidiano pubblicava interventi, da destra a sinistra, con i quali venivano descritti come diffamatori i racconti sulle infiltrazioni mafiose nella festa di Sant’Agata (proprio una settimana fa è stata chiesta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per l’ex presidente del circolo agatino Pietro Diolosà) o gli allagamenti del villaggio Santa Maria Goretti. «Questa sentenza ristabilisce la verità», conclude Condorelli.

Dal canto suo Mario Ciancio Sanfilippo promette il ricorso in appello: «E’ una decisione ingiusta, che non tiene conto delle dettagliate prove documentali e delle minuziose ricostruzioni espresse in giudizio – ha dichiarato all’Ansa – Io per primo, infatti, sostengo, e continuerò sempre a sostenere, la libertà di informare e di criticare. Ma questa libertà non può consentire insinuazioni, messaggi maliziosi od accostamenti ingiustificati con illeciti e la criminalità».


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Il giudice romano Damiana Colla ha respinto la richiesta di risarcimento danni (dieci milioni di euro) presentata dal direttore-editore de La Sicilia contro la trasmissione Rai, condannandolo a pagare le spese processuali. Nell'inchiesta I Viceré del 2009 si faceva riferimento al monopolio dell'informazione e agli affari dell'imprenditore etneo. I cronisti Sigfrido Ranucci e Antonio Condorell: «L'intento di queste richieste è intimidatorio, per non far parlare di certi argomenti»

Il giudice romano Damiana Colla ha respinto la richiesta di risarcimento danni (dieci milioni di euro) presentata dal direttore-editore de La Sicilia contro la trasmissione Rai, condannandolo a pagare le spese processuali. Nell'inchiesta I Viceré del 2009 si faceva riferimento al monopolio dell'informazione e agli affari dell'imprenditore etneo. I cronisti Sigfrido Ranucci e Antonio Condorell: «L'intento di queste richieste è intimidatorio, per non far parlare di certi argomenti»

Il giudice romano Damiana Colla ha respinto la richiesta di risarcimento danni (dieci milioni di euro) presentata dal direttore-editore de La Sicilia contro la trasmissione Rai, condannandolo a pagare le spese processuali. Nell'inchiesta I Viceré del 2009 si faceva riferimento al monopolio dell'informazione e agli affari dell'imprenditore etneo. I cronisti Sigfrido Ranucci e Antonio Condorell: «L'intento di queste richieste è intimidatorio, per non far parlare di certi argomenti»

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Il giudice romano Damiana Colla ha respinto la richiesta di risarcimento danni (dieci milioni di euro) presentata dal direttore-editore de La Sicilia contro la trasmissione Rai, condannandolo a pagare le spese processuali. Nell'inchiesta I Viceré del 2009 si faceva riferimento al monopolio dell'informazione e agli affari dell'imprenditore etneo. I cronisti Sigfrido Ranucci e Antonio Condorell: «L'intento di queste richieste è intimidatorio, per non far parlare di certi argomenti»

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