L’onorevole doveva morire perché non aveva contribuito ad aggiustare il processo per l’omicidio Basile. Un progetto poi fermato dallo stesso Riina, che lo aveva ordinato. «Ci furono tanti aggiustamenti, anche da parte di altri soggetti esterni a Cosa nostra»
Appello Trattativa, Brusca e il piano per uccidere Mannino «Dopo il Maxi tanti ancora quelli a cui rompere le corna»
«Intendo rispondere». Lo dice subito, Giovanni Brusca, senza remore, e col suo solito tono spigliato e veloce Giovanni Brusca. Mafioso della famiglia di San Giuseppe Jato e fidato braccio destro di Totò Riina, il collaboratore di giustizia torna a parlare. Lo fa all’udienza del processo di appello sulla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra, che lo vede sedere tra gli imputati insieme ad altri boss e appartenenti delle istituzioni. Il suo racconto riparte dall’indomani della sentenza del maxi processo. Come reagì Cosa nostra? «C’erano ancora altri soggetti a cui dovevamo rompere le corna – dice subito -, il primo era il dottore Giovanni Falcone, dopo di lui c’era il dottore Paolo Borsellino, ma anche Martelli, Vizzini, il dottore La Barbera…non ricordo tutti i nomi, in linea di massima questi, ma c’erano anche altri soggetti». Nell’elenco della mafia infatti c’era anche l’onorevole Calogero Mannino, assolto in appello lo scorso luglio in abbreviato sempre nell’ambito del processo sulla trattativa.
Ma perché uccidere Mannino? «Serviva un futuro aggancio politico, e politici come lui dovevano essere tolti di mezzo perché, in parte, non aveva mantenuto gli impegni – dice -. Anche se di questo se ne occupava Totò Riina. Poi Mannino andava ucciso perché una volta non si era messo a disposizione per l’aggiustamento di un processo». È quello per l’omicidio del capitano Emanuele Basile, ucciso il 4 maggio 1980 durante una festa patronale a Monreale. Il piano per uccidere l’onorevole, poi sfumato del tutto, inizia a prendere corpo qualche settimana dopo la strage di Capaci, prima però che avvenga l’attentato a Borsellino. «Si trattava di minacciare qualche giudice popolare, tentare di agganciare i pubblici ministeri, modificare le perizie, immaginatevi tutto l’impossibile – racconta il collaboratore -. Se ne occupava principalmente Riina. Ma l’ultima fase andò negativa». In quel piano un ruolo ce l’ha anche lui, durante la fase preparatoria: «Cominciai a studiare le sue abitudini, come si usa fare in Cosa nostra. E diedi questo incarico anche ad Antonino Gioè, che doveva capire quali fossero i luoghi più frequentati da Mannino. Io non mi sono mosso, c’ha pensato lui, al 99 per cento con La Barbera».
«Gioè – dice più avanti – era la mia spalla, il mio braccio destro. Lui e La Barbera erano pure sempre insieme, in simbiosi. Poi però Riina stoppò tutto. Ma non riuscì mai a parlarne direttamente con lui». Quello che è certo è che c’è stato un momento in cui, secondo le logiche di Cosa nostra, Mannino avrebbe dovuto pagare per non aver fatto nulla in merito al processo per il delitto Basile. Un omicidio, anche quello, in cui Brusca si occupò sempre della fase preparatoria all’attentato: preparare le armi, concordare il giorno in cui agire, la scelta della festa patronale, assicurarsi che durante l’evento vada tutto come stabilito, programmare il modo in cui Basile sarebbe dovuto morire. «Questo processo ha avuto numerosi aggiustamenti, sia in primo che in secondo grado, ma anche alla Cassazione con le perizie – dice -. C’è stato un enorme impegno e un grosso lavorìo, la regia era di Riina, ma anche quelli che appartenevano a Resuttana e a Ciaculli, tutti si mettevano a disposizione». Aggiustamenti per i quali potrebbero essersi adoperati anche altri uomini esterni a Cosa nostra, «è possibile, ma non lo ricordo».
Ma l’omicidio di Mannino non avverrà mai. E Brusca e Riina non ne discuteranno mai personalmente, in base ai suoi ricordi di oggi. Malgrado gli incontri tra boss fossero frequenti. «Ci incontravamo all’epoca prevalentemente a Palermo, ma anche a Partinico, a Santa Flavia. Dopo l’arresto di Bagarella (giugno ’95) ho incontrato anche Matteo Messina Denaro, l’ho incontrato tantissime volte, di solito nella zona di Trapani: Dattilo, Erice, di solito in quel territorio – racconta Brusca -. Quasi sempre c’era anche Vincenzo Sinacore, spesso Nicola Di Trapani, qualche volta pure Gaspare Spatuzza. Molte volte ho incontrato anche Giuseppe Graviano». Mentre Bagarella era latitante a Mazara del Vallo. Anche se avrebbe trascorso circa un mese e mezzo anche a Santa Flavia, «ospite nella villa di Gaetano Sangiorgi», genero dell’esattore Nino Salvo. A dargli il cambio, dopo qualche ora, è il collaboratore Gioacchino La Barbera, anche lui ascoltato in videocollegamento nelle vesti di teste assistito. Le domande puntano ancora al progetto sfumato di uccidere Mannino. «Lo seguivo sempre, stavo con Gioè giorno e notte – racconta -, lui era libero quanto lo ero io, incensurati. Sempre a fare ambasciate anche insieme».
Ma a fare squadra ci sono anche Bagarella e Brusca, quest’ultimo secondo il suo racconto non gli avrebbe mai dato alcun incarico ufficiale rispetto al piano contro Mannino. Così come ha partecipato ai sopralluoghi per un possibile attentato anche a Pietro Grasso. «In quella stagione sono successe tante cose, in quel periodo c’è stato anche l’attentato a Rino Germanà a Mazara del Vallo», dove c’è anche Bagarella, col quale La Barbera si vede una volta a settimana almeno: «Dopo agosto non passava settimana che non ci vedevamo – continua -. Sempre in quel periodo, a settembre, ci fu anche l’omicidio di Ignazio Salvo. Bagarella si spostò a Santa Flavia nella villa di Tano Sangiorgi, ricordo che era fine estate, dopo l’omicidio si è spostato. Faceva sempre così, non restava nel luogo dove era stato commesso l’omicidio», conclude, confermando il ricordo raccontato poco prima anche da Brusca. «Io ero un soldato semplice, non sapevo tante cose, che ho capito dopo. Così come Gioè, che era però molto vicino a Bagarella, con cui si conosceva da vent’anni, e a Brusca. Se riceveva qualche incarico, non poteva parlarne con me».