Salvatore Guastella è l'ultimo imprenditore agricolo a finire nel mirino della Finanza. «Ti tolgo tutto, ti faccio perdere tutto», diceva a un suo bracciante assunto fittiziamente che non voleva pagarlo. «Un sistema divenuto prassi», denunciano i sindacati
Nelle campagne di Ragusa il lavoro (finto) si compra Braccianti stranieri sotto ricatto per avere il permesso
«Razza lurda». Salvatore Guastella, giovane imprenditore agricolo di Comiso, così chiamava i suoi lavoratori stranieri. Eppure proprio grazie a quella manodopera, assunta solo sulla carta e usata per truffare l’Inps, avrebbe guadagnato diverse migliaia di euro.
Il 32enne è l’ultimo titolare di impresa della fascia trasformata (la zona della Sicilia in cui si trovano il maggior numero di serre ed è concentrata la produzione ortofrutticola isolana) a finire nel mirino della guardia di finanza: ai domiciliari da una settimana con l’accusa di truffa aggravata, sfruttamento dei lavoratori e violazione delle norme sull’immigrazione. Insieme a lui la misura cautelare è stata applicata anche al fratello 22enne Nickolas e a Giovanni Iozzia, 47enne consulente del lavoro di Vittoria, che lo avrebbe supportato nel mettere in piedi la frode. Nella stessa indagine – e con le medesime accuse – è finito ai domiciliari un altro imprenditore agricolo, l’albanese 44enne Mesar Ruci.
Ruci e Guastella non si conoscono: il primo lavora a Santa Croce Camerina, il secondo nella zona di Comiso. Ma condividono un modo di agire che, nell’area tra Vittoria e Gela, sembra non essere affatto un caso isolato: centinaia di assunzioni fittizie, con l’obiettivo di incassare le indennità a carico dell’Inps (disoccupazione, malattia, maternità), mentre poi a lavorare nei campi ci vanno solo pochissimi braccianti, sottopagati (tra i 20 e i 30 euro per nove ore sotto il sole, anziché i 50-55 previsti da contratto) e tenuti a vivere in condizioni di estremo degrado. Lavoratori per la maggior parte stranieri, che accettano condizioni umilianti perché solo grazie a quel pezzo di carta (il finto contratto) riescono a ottenere o a rinnovare il permesso di soggiorno.
«Purtroppo è sempre più una prassi – denuncia Michele Mililli, sindacalista dell’Usb di Ragusa – contratti falsi per avere le indennità che in parte vengono restituite all’imprenditore. Oppure contratti che non corrispondono alla realtà: sulla carta 102 giornate, ma la prestazione di lavoro supera le duecento giornate. O ancora contratti regolari, ma poi i braccianti sono costretti a restituire parte dello stipendio. È una piaga che colpisce la maggior parte dei lavoratori della fascia trasformata».
Secondo quanto ricostruito dalla guardia di finanza di Ragusa, guidata dal capitano Antonio Schiazza, l’impresa di Guastella nel 2016 avrebbe assunto 72 lavoratori, ma nei campi realmente sarebbero andati in quattro. Mentre l’anno dopo le assunzioni sarebbero salite a 108 a fronte di appena undici braccianti operativi. Per ogni finta giornata di lavoro il titolare avrebbe preteso tra i 14 e i 17 euro, da pagare in parte prima e in parte dopo la liquidazione delle indennità da parte dell’Inps ai dipendenti. Persino per la consegna dei documenti, il Cud e il contratto, determinanti ai fini del permesso di soggiorno, sarebbe stato necessario un pagamento extra di circa 150 euro. «Ti giuro, ti faccio perdere tutto, ti tolgo tutto. Io non sono stupido, vedrai», dice Guastella a un giovane bracciante tunisino che tentenna nel pagarlo. L’imprenditore, stando alle indagini, avrebbe ottenuto e trattenuto per sé anche il bonus di 80 euro varato dal governo Renzi.
«Nelle campagne ragusane – denuncia il sindacalista Mililli – i lavoratori sfruttati pagano per tutto, allo sfruttamento si aggiunge il caporalato dei servizi. Qui anche per fare la spesa o per andare dal medico i braccianti devono pagare, perché vivono isolati, in mezzo al nulla e spesso nella stessa azienda dove lavorano. Ribellarsi significa rimanere in mezzo alla strada, con a carico la propria famiglia».
Secondo il sindacato di base, la situazione ha vissuto nel recente passato due momenti che l’hanno ulteriormente peggiorata: la sostituzione della comunità magrebina con quella rumena e lo sfruttamento dei ragazzi che vivono nei centri d’accoglienza. «Vengono pagati ancora meno e senza contratti – spiega Mililli – Solo una comunità che si stabilizza, come era avvenuto per i magrebini, riesce a ottenere, a mano a mano, condizioni migliori. Così invece è una guerra tra poveri e gli ultimi arrivati scontano il prezzo più alto: per nove ore di lavoro vengono pagati appena venti euro».