Petrolchimico di Siracusa, la battaglia oltre il sequestro «Nononostante i pm, la qualità dell’aria non è migliorata»

«Sa come si dice da queste parti? C’è fetu di Sincat». A commentare la notizia del nuovo sequestro condizionato per alcuni impianti del polo petrolchimico di Siracusa – dopo quello del 2017 che riguardò Isab ed Esso (nel frattempo acquisita dagli algerini di Sonatrach) – è Enzo Parisi, referente di Legambiente ad Augusta. Uno dei Comuni – insieme a Priolo Gargallo, Melilli e Siracusa per la frazione di Belvedere – che compongono il quadrilatero industriale finito nell’occhio della procura di Siracusa, oltre che, da decenni, nelle narici degli oltre 70mila abitanti che vivono a ridosso degli stabilimenti.

Il riferimento di Parisi va al complesso Sincat – sigla di Società industriale catanese – sorto sulla costa di Priolo a metà anni Cinquanta, specializzandosi nella produzione di prodotti chimici e rifornendo altre imprese della zona. «Le lavorazioni producevano cattivi odori che si sono tramandati di generazione in generazione, al punto che oggi, quando ci si imbatte nei miasmi, si richiama quell’espressione del passato», spiega l’ambientalista. D’altronde, per chi vive in questi territori la percezione di odori molesti continua purtroppo a essere una consuetudine. Situazioni finite all’attenzione del tribunale che ha disposto il sequestro degli stabilimenti gestiti da Versalis e Sasol, oltre che degli impianti di depurazione di Industria acqua siracusana (Ias) e Priolo servizi. Il provvedimento prevede la restituzione dei siti ai proprietari a patto di effettuare gli interventi necessari a ridurre le emissioni, che, stando ai dati raccolti dai consulenti della procura, sono quantificabili nel 12,8 per cento di quelle riscontrate nell’aria. Il sequestro è molto simile a quello deciso a luglio 2017 per Esso e Isab, alle quali veniva imputato oltre il 74 per cento delle emissioni di natura industriale. 

Ma cosa ne è stato delle prescrizioni imposte oltre un anno fa alle due società? «Ci sono stati alcuni stop agli impianti per consentire la messa a norma e sappiamo che presto dovrebbero fermarsi nuovamente – commenta Parisi -. Ma se mi chiede se la qualità dell’aria ci sembra migliorata, la risposta allora è negativa. In questi due anni i cittadini hanno continuato a lamentarsi e fare segnalazioni». Tra chi ha il compito di controllare c’è anche l’Arpa, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente. La stessa che nel 2014 ha effettuato un monitoraggio delle condizioni nei dintorni del petrolchimico, senza però che i dati almeno per alcuni mesi arrivassero al ministero dell’Ambiente. È a quest’ultimo, infatti, che spetta la concessione dell’autorizzazione integrata ambientale (Aia), documento fondamentale per mettere in funzione siti potenzialmente inquinanti. 

In merito alle Aia, nelle indagini sono emersi due scenari diversi: da una parte «un preoccupante divario tra le prescrizioni imposte e le effettive condizioni di esercizio degli impianti» e dall’altra casi in cui le stesse autorizzazioni sarebbero state date senza tenere conto delle cosiddette Bat, acronimo di best available techniques, ovvero le migliori tecniche a disposizione. Secondo il codice dell’ambiente, queste ultime, che sono legate anche al principio di precauzione, sono vincolanti nella redazione delle prescrizioni da seguire per rispettare nella gestione degli impianti. Nella sostanza, dunque, per la procura i gestori non avrebbero fatto tutto il possibile per far sì che gli impianti emettessero i quantitativi più bassi di sostanze nell’aria. «Il monitoraggio ha consentito di accertare l’alterazione della matrice naturale aria, con superarnenti puntuali di molteplici sostanze di indubbia origine industriale».

A riguardo va fatta una precisazione: non per tutte le sostanze esistono leggi che ne fissano i limiti. Tra quelle normate c’è l’ozono, il cui parametro ha registrato alte concentrazioni specialmente a Melilli, il pm10 il cui limite è stato superato 49 volte a fronte di un massimo di 35 in un anno. Un caso particolare è quello del benzene, la cui natura cancerogena è stata accertata dall’Organizzazione mondiale della sanità. «Il limite è fissato su base annuale e non tiene conto delle concentrazioni in singoli giorni o fasce orarie come invece accade», commenta il referente di Legambiente, trovando conferma nei rilievi dei consulenti. Tra quelle che invece non sono regolamentate, ma che comunque sono considerate «dannose nonché responsabili dei miasmi», c’è l’idrogeno solforato. Dal caratteristico odore di uova marce, è pericoloso per gli occhi, per il sistema respiratorio e il nervo olfattivo. «In passato sono accaduti incidenti anche mortali negli stabilimenti per avere inalato questa sostanza – ricorda Parisi -. Il fatto che non siano fissati dei limiti non è accettabile». Di recente Legambiente ha denunciato l’interruzione dell’attività di tre centraline installate ad Augusta, di cui una all’interno della villa comunale. «L’Arpa ci ha fatto sapere che avrebbero bisogno di manutenzione straordinaria, informandoci che non vengono usate per fare le valutazioni ufficiali – racconta l’ambientalista -. Per noi invece sarebbe necessario rimetterle in sesto perché utili come sentinelle, visto che misurano i livelli di sostanze cancerogene».

A fine 2018 le società del polo petrolchimico hanno fatto ricorso al Tar per opporsi al piano di tutela della qualità dell’aria approvato dalla Regione. Tra i motivi all’origine del ricorso ci sono il «mancato aggiornamento dei dati sulle fonti di emissione» e l’uso di strumentazioni per il monitoraggio ritenute «obsolete e superate da tecnologie più affidabili e avanzate».


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