In carcere da gennaio 2017, avrebbe assunto «un ruolo privilegiato» nel traffico di droga. Tanto da essere accusata di essere vicina alla cosca della 'ndrangheta Pelle di San Luca, oltre a gestire le importazioni verso il vecchio continente
Maria Campagna, la donna che riempie l’Europa di cocaina Gli affari in Olanda della compagna del boss Turi Cappello
«Incomincia ad avvisare. Dagli la bellissima notizia». Serafino Rubino è latitante in Colombia mentre stringe tra le mani il suo BlackBerry, euforico perché la notizia di cui parla non è una cosa qualunque ma il regalo di compleanno per il fratello Giulio. Un lavoro «da 128». Come i chili di cocaina che Rubino annuncia di avere fatto spedire dal Sud America, destinazione Italia. Un’operazione che vale milioni di euro, resa possibile grazie ai buoni rapporti dei presunti trafficanti casertani con Big. Nickname di un broker colombiano della droga che non verrà mai identificato dalle forze dell’ordine. A Roma arriva però Pedro, un emissario dei fornitori. E quando Giulio Rubino lo incontra, in un ristorante vicino alla stazione Termini c’è pure una donna. Scarpe sportive bianche e capelli scuri legati in una lunga coda. Lei è Maria Rosa Campagna, 49 anni. Meglio nota per essere la compagna del boss catanese Turi Cappello. Oggi – dopo l’operazione antimafia Penelope – si trova dietro le sbarre del carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, ma due anni fa la donna sarebbe stata una delle figure centrali per l‘importazione di centinaia di chili di cocaina dal Sud America. Il suo nome è uno di quelli più importanti dell’operazione European ‘ndrangheta connection. Inchiesta che ha portato, due giorni fa, a 90 arresti fra Calabria, Nord Europa e Sud America. Tutto grazie a un coordinamento (Joint Investigative Team) fra polizie e magistrature dei diversi Paesi interessati.
Il passaggio chiave per concludere l’affare, annunciato ad aprile 2016 da Rubino, è l’apertura del container. Perché è via mare che viaggia la droga importata dal Sud America. Ma quel cassone, identificato dal codice INBU3711911, a un certo punto sembra essere sparito. Tanto che gli indagati iniziano a essere perplessi sulla buona riuscita dall’operazione. Anche perché non trapela nessuna notizia di sequestri da parte delle autorità. Alla fine il carico arriva al porto di Napoli, ma soltanto dopo una sosta nello scalo marittimo di Gioia Tauro, in Calabria. I telefoni vengono inondati di messaggi ma quando c’è da aprire il container ecco l’amara sorpresa. «Alzalo e svuotalo», scrive Rubino a un suo complice. Ma di bianco in quei sacchi c’è solo dello zucchero. La cocaina, invece, è rimasta a Panama, al confine con la Colombia. Trovata dalla polizia locale all’interno di tre borsoni. Solitamente la droga viene sistemata nella parte iniziale con il cosiddetto metodo del rip-off. Così all’apertura lo stupefacente può essere preso subito in consegna, senza attendere che venga svuotato tutto il carico con il suo contenuto legale. Nelle foto che vengono mandate dal porto di Napoli, invece, si vedono soltanto dei sacchi bianchi ricolmi di zucchero. Della droga nemmeno l’ombra.
Per provare a sfuggire a intercettazioni e cimici, la rete mondiale della droga si era organizzata attraverso i cellulari BlackBerry e le chat interne del sistema fornito dalla società canadese. Conversazioni coperte da nickname e numeri identificativi. Nei messaggi di questa indagine spesso compare l’appellativo di «Zì», cioè zia. Come il cartello della droga era solito chiamare Maria Campagna. Una «donna con le palle» per alcuni degli uomini con cui ha a che fare, viene descritta dagli investigatori come specializzata «nel recuperare considerevoli quantitativi di cocaina, in qualsiasi porto veniva spedita». In particolare in quello di Napoli, dove la compagna del padrino catanese condannato all’ergastolo avrebbe beneficiato di alcune coperture all’interno dell’area doganale. Nell’affare sfumato a Panama, secondo le indagini, anche lei avrebbe investito un notevole quantitativo di denaro. Così come i fratelli Rubino. Gli affari di Campagna però non si sarebbero fermati.
Alcuni mesi dopo la spedizione sfumata, la donna si imbarca su un volo Napoli-Amsterdam insieme al figlio – anche lui indagato – e a un’amica che conosce lo spagnolo. In tasca gli immancabili cellulari BlackBerry per mantenere i contatti con la persona da incontrare l’indomani. Campagna si sposta in Olanda non solo per verificare personalmente la qualità di un carico di polvere bianca, poi ritenuto «non buono», ma anche per organizzare un presunto recupero di droga. Sul tavolo della trattativa, in una conversazione intercettata tra il latitante Rubino e la donna, finisce il prezzo da pattuire con alcuni nuovi fornitori. «Tu digli al signore però che ci deve fare risparmiare, ca qui la famiglia è grande». Il riferimento di Rubino, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è anche alla cosca Pelle-Vottari di San Luca. Storico sodalizio della ‘ndrangheta che rientra in un’operazione di narcoimportazione da 57 chili di cocaina destinati, forse per errore, al porto di Gioia Tauro. Da capire, come ogni spedizione, non c’è solo il numero del container e la nave che l’ha imbarcato ma anche la percentuale di stupefacente da lasciare come corrispettivo a chi renderà possibile il recupero del carico. L’accordo, secondo l’accusa, si concretizza in un ristorante di Cercola, vicino Napoli. Davanti a una cena a base di pesce a cui prende parte Maria Campagna, insieme al figlio. Anche in questo caso però le cose non vanno come vorrebbero, nonostante l’arrivo in Italia di un nuovo referente dal Sud America per sancire definitivamente l’accordo.
«Cugì, domani esce la notizia, l’hanno beccata». Un messaggio sullo smartphone letto a voce alta. Con queste parole Domenico Pelle, 26 anni, annuncia ai suoi complici il sequestro del carico di droga al porto di Gioia Tauro. Un fiume di cocaina suddiviso in 51 panetti, che sarebbe dovuto uscire indenne dallo scalo marittimo grazie a un gancio a libro paga della cosca. Poi identificato in Giorgio Violi, che per gli inquirenti è «colui che si adoperava di solito per recuperare, per conto dei narcotrafficanti, le forniture di droga». Un tipo robusto, «scuro in faccia» e con «un occhio storto», che nelle intercettazioni viene riconosciuto come «una persona seria». Nella confusione che crea il sequestro della guardia di finanza viene monitorato anche l’arrivo della donna a casa dei Pelle. Un rapporto non solo legato alla cocaina ma anche a una vecchia amicizia nata dietro le sbarre. Quando nel 2007 la donna si trovava in cella, nel carcere di Messina, con Teresa Vottari, moglie del capomafia Antonio Pelle. «Quella è un mostro», raccontava Antonio Costadura e Domenico Pelle riferendosi alla compagna di Cappello. Tanto da invitarlo a rendersi conto con i suoi occhi andando personalmente al porto di Napoli. «Zona di massima competenza della donna».