Quasi uccisa dall’ex compagno, che da maggio è libero Continua l’incubo di Lidia Vivoli: «Temo che ci riprovi»

«Ma che hai fatto per meritarti questo?». Se l’è sentita fare talmente tante volte questa domanda, Lidia, che ormai ha perso il conto. «Ho denunciato le violenze subite, una colpa che sconto ogni giorno da sei anni sentendomi continuamente giudicata, maltrattata, denigrata». La storia di Lidia Vivoli, ex hostess della Wind Jet quasi uccisa dall’ex compagno la notte del 24 agosto 2012, è ormai nota. Continua a raccontare di quella notte di terrore sui giornali e in televisione, nella speranza di sensibilizzare, di avvertire, di aiutare qualcuno. La cercano tutti: la vogliono alle sfilate, alle manifestazioni, alle puntate, negli studi televisivi, alle inaugurazioni. È un simbolo, ormai. Ma spenti i riflettori di ogni 25 novembre, di lei sembra non importare più a nessuno. «Dal 26 in poi spariscono tutti e io rimango sola con la mia storia, ma soprattutto con la mia paura». Quella che lui ci riprovi ancora, a ucciderla. E non ha tutti i torti a pensarlo, visto che da sei mesi il suo ex compagno si trova di nuovo fuori, libero e senza braccialetto elettronico. Ha scontato in tutto appena tre anni di galera per tentato omicidio e sequestro di persona, tra sconti, premi e il patteggiamento.

«Ingenuamente pensavo: denuncio, fanno le indagini, che non possono che darmi ragione, poi lo condannano e arrivederci e grazie. Ma non è andata così – racconta Lidia -. Intanto, con una prognosi inferiore ai 40 giorni per la vittima, non lo mandano nemmeno in galera. A me che ero in fin di vita ne hanno dati 33. Lui in galera c’è andato, ma i tempi di custodia cautelare hanno una scadenza e passata quella, è tornato a casa sua per aspettare il processo, anche perché dopo cinque mesi il suo legale ha chiesto e ottenuto i domiciliari». Non fa passare troppo tempo prima di tornare a fare irruzione nella vita della donna che nemmeno un anno prima aveva quasi ucciso. «Ciao Lidia, sono a casa da tre giorni», un messaggio secco, diretto, che le scrive su Facebook. Ma non è per supplicare il suo perdono che la cerca. «Ha subito infranto il primo divieto dei domiciliari, quello di usare i social e per di più per contattare me che sono la persona offesa. Ma per quelli come lui infrangere le regole è solo motivo per sentirsi un figo – si sfoga -. Io ho risposto pensando che fosse un altro che accedeva dal suo computer. Invece era proprio lui». Dopo i messaggi iniziano le telefonate. «Anche 50 al giorno, erano continue. E tutte seguite dalla stessa minaccia: “Se non mi rispondi vengo a casa tua, sai che ne sono capace”».

Messaggi che aumentano, uno dietro l’altro, e che Lidia mostra denuncia dopo denuncia. Senza però ottenere nulla di più. «Mi dicevo allora di avere pazienza, di aspettare il secondo processo. Ma già il fatto che abbia patteggiato ha rappresentato per lui una sorta di premio, considerando lo sconto sulla pena finale – dice -. L’Italia sembra quasi un paese garantista dei delinquenti: per ogni anno di carcere, chiunque tu sia fatta eccezione per i condannati per mafia, vengono concessi tre mesi di sconto ogni anno, quindi dieci anni sono 90 mesi per esempio, vedi che sconti». Prima di tornare definitivamente in carcere, dove rimarrà per tre anni, lui continua a cercarla senza sosta. «Se ne fregava delle mie denunce. Mi mandava messaggi in cui mi scriveva come ero vestita o dove andavo, così tutti i giorni, mi pedinava e io non lo vedevo. Ero terrorizzata. Poi un giorno me lo sono trovata davanti e mi ha nuovamente messo le mani addosso». È il 2 novembre del 2014, lui tenta subito un approccio ma lei lo respinge, innescando la sua rabbia. Alza le mani anche all’attuale compagno della donna, per cui c’è un procedimento quasi concluso davanti al giudice di pace. «Per non parlare delle minacce ai miei amici, mi ha fatto terra bruciata con tutti, li ha contattati uno per uno cercandoli tra i miei contatti di Facebook per dire loro che io mi prostituisco – racconta ancora -. Mentre sul suo profilo scriveva di avere la coscienza pulita, che tanto sono io che sono solo una buttana, ma lo siamo tutte dopo che li lasciamo, no?».

Intanto è ancora in corso un secondo processo, quello per stalking con rito ordinario. «Per ora che c’è il processo non mi sta contattando, non è certo un cretino – continua -. Mi ha detto che me ne farà andare via da Palermo, perché mi sputtanerà per tutta la città. Questa è la situazione, ho chiesto aiuto a chiunque, io sono terrorizzata. Ma siccome ho denunciato e continuo a parlare di lui e di quello che mi ha fatto, nessuno vuole darmi neppure un lavoro, vivo nel terrore di essere uccisa, il pericolo c’è, lui adesso è libero. Una violenza senza fine, mentre io rimango sola». Sola rispetto a una violenza che, passata quella notte di sei anni fa, è tornata a bussare più volte alla porta di Lidia, e senza troppi complimenti. «Non sono bastate a proteggermi tutte le minacce che ho denunciato, tutti gli “ammazzati” o i “posso venire quando voglio, tanto so dove abiti”». Non lo incontra da quell’ultima aggressione di quattro anni fa; poco dopo, ad aprile 2015, lui entra in carcere per uscirne a maggio di quest’anno. «Non so se ha continuato a mandarmi sms, io il mio vecchio numero ormai l’ho cambiato. Non so nemmeno se continua a seguirmi». Lui ha il divieto di avvicinamento nelle zone limitrofe al suo Comune, Santa Flavia, quindi Misilmeri, Ficarazzi, Bagheria, Casteldaccia, Altavilla, Trabia, sono off-limits, e non può uscire la notte.

«Non lascio la Sicilia perché così gliela darei vinta. Perché dovrei andare via io che sono la vittima, io che reato ho commesso? Perché deve essere sempre la vittima che in un modo o nell’altro deve pagare le conseguenze della scelta di denunciare? Essere messa alla berlina, essere maltrattata ulteriormente dentro ai tribunale, durante gli interrogatori o anche nel momento della denuncia – dice -. Invece di proteggere la vittima a 360 gradi, questa viene condannata, colpevolizzata di tutto: avevi il tanga? Allora potevi essere stuprata. E anche se qualche donna dovesse sbagliare, perché dovrebbe per questo essere sfregiata, mutilata o uccisa? Il 70 per cento delle donne uccise aveva denunciato. Nessuna donna è immune alla violenza».


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