Esce per Newton Compton il nuovo libro dello studioso Vincenzo Ceruso. Che ripercorre tante vicende della storia siciliana, da Portella della Ginestra alla strage di via D'Amelio. Tutte accomunate dalla presenza di uomini degli apparati, mafiosi e neofascisti: «Non sempre i golpe più riusciti sono quelli portati a termine»
La mafia nera, il libro sui legami tra Cosa nostra e i neofascisti «Un tema ignorato, nonostante torni spesso nella nostra storia»
«Esiste un’ideologia stragista, che costituisce un tratto della nostra modernità, si distingue dalla semplice violenza e il cui nucleo essenziale consiste nel considerare la morte di innocenti come obiettivo strategico da perseguire». In Sicilia un’introduzione del genere fa scattare subito immagini ben precise: il portone sventrato di via D’Amelio, ad esempio, o i cadaveri dei contadini a Portella della Ginestra. Vicende drammatiche e torbide dove il ruolo della mafia non è neanche, forse, quello principale. E adesso ripercorse in un libro che prova a individuare il filo che le unisce.
Vincenzo Ceruso è un allievo di padre Pino Puglisi e ha lavorato per vent’anni con la Comunità di Sant’Egidio, in alcuni dei quartieri più difficili di Palermo. Negli ultimi anni ha scoperto una vena di scrittore impegnato, grazie anche alla collaborazione con il centro studi Pedro Arrupe, la Link Campus University e la collaborazione con diverse testate antimafia. Per la Newton Compton è appena uscito il suo ultimo libro La mafia nera. Il sottotitolo del volume, edito da Newton Compton, è ancora più esplicito: i depistaggi tra eversione neofascista e Cosa nostra, storia di un’Italia oscura.
Un’esigenza, quella di Ceruso, che è arrivata col tempo. «La prima idea era di scrivere sui depistaggi che hanno attraversato la storia d’Italia, ma mi sono accorto che era un tema troppo vasto – dice – Ho iniziato a studiare le sentenze principali, soprattutto quelle degli anni ‘2000, che riguardavano ad esempio la strage di piazza Loggia a Brescia o piazza Fontana a Milano, in cui erano state individuate responsabilità ben precise del gruppo neofascista di Ordine Nuovo. Man mano che leggevo emergevano i collegamenti e il ruolo che la mafia siciliana ha avuto nella storia dell’eversione. Con un un ruolo diverso rispetto a quello che tradizionalmente le si attribuisce. Il tema del libro è dunque diventato di più quello dello stragismo e di questi legami tra Cosa nostra e neofascismo. Per tanti anni il tema è stato ignorato».
Una scelta, quella di accantonare i legami tra mafia e fascismo, a prima vista incomprensibile se si pensa per esempio a boss come Pippo Calò negli anni ’70 o alle confessioni di Tommaso Buscetta e Nino Calderone a fine anni ’80. «Da un lato ciò è stato dovuto a una sorta di pigrizia culturale – afferma lo scrittore – perché valeva la vulgata che i mafiosi diffidavano dei fascisti, memori della repressione del Ventennio e di Mussolini. Un luogo comune che si era consolidato, insomma. Dall’altro c’erano delle coperture ben precise che avevano reso opache le ricostruzioni di alcune trame. Per tanti anni si è pensato che il golpe Borghese del 1970, o meglio il tentato golpe Borghese, fosse un golpe da operetta. E qui una parte della mafia siciliana aveva dato il proprio contributo. Se è vero che il tentativo non era stato portato a termine ciò non vuol dire che non abbia sortito effetti sulla politica nazionale, tanto da mutarne il corso. Non sempre i golpe più riusciti sono quelli portati a termine.
E proprio su questa vicenda potrebbe associarsi la scomparsa di Mauro De Mauro, il giornalista dell’Ora scomparso il 16 settembre del 1970 e il cui corpo non è mai stato ritrovato. Tra le ipotesi investigative, infatti, oltre a quella nota di un legame con la morte di Enrico Mattei (De Mauro stava indagando sugli ultimi giorni in Sicilia del fondatore dell’Eni, su commissione del regista Francesco Rosi), c’è anche quella relativa al golpe Borghese. In tanti dimenticano, ad esempio, che il giornalista militò nella flottiglia X Mas, fondata proprio dal militare fascista. «Sembra che De Mauro avesse confidato al magistrato Pietro Scaglione, poi ucciso dalla mafia, i suoi sospetti. Anche Boris Giuliano aveva seguito la pista del golpe Borghese. Ci sono dunque dei legami che tornano in diverse stagioni della nostra Repubblica e che vedono insieme uomini degli apparati, mafiosi e neofascisti».
Una conferma in tal senso è arrivata negli scorsi mesi dalla sentenza del Borsellino quater: nelle 5252 pagine di motivazioni che hanno portato a definire i giudici la strage di via d’Amelio «uno dei più gravi depistaggi della storia d’italiana», c’è stato spazio anche per la cosiddetta vicenda Bellini, più nota come seconda trattativa: l’ex esponente di Avanguardia Nazionale si propose nell’estate del 1992 come intermediario col boss Nino Gioè, per un tentativo di accordo «tra i carabinieri e le cosche mafiose». Ceruso su questo punto va oltre. «In quelle pagine c’è un ritratto del generale Mario Mori, in cui vengono descritti i suoi collegamenti con Ordine Nuovo e con l’eversione neofascista sin dagli anni ’70, oltre che i contatti con colui che diventerà l’avvocato di Ciancimino. Vicende che servono a descrivere un modus operandi all’interno delle istituzioni, dentro gli apparati dello Stato, che ignora qualunque regola. Quasi un corpo a parte, prima nei servizi e poi nei carabinieri, con uomini che non si muovevano solo per la tutela della legalità, ma anche per altri fini che sono rimasti ignoti».
E nel post scriptum c’è una scelta apparentemente sorprendente, ovvero la descrizione della «morte improvvisa dell’anarchico Franco Mastrogiovanni». Da dove deriva la necessità di raccontare una vicenda rimasta ai margini? «Attorno alla sua storia ruotano i tanti temi che attraversano il libro – spiega il ricercatore – È la storia di questo pover’uomo torturato e ucciso in un ospedale psichiatrico. Ma lui era anche un anarchico che aveva indagato sulla strage di Gioia Tauro, sui collegamenti tra quello che venne inizialmente derubricato come un incidente ferroviario e la rivolta di Reggio Calabria, che era avvenuta sempre nel 1970 e che aveva visto fascisti e ndranghetisti insieme a Cosa nostra siciliana. Per questo Mastrogiovanni era stato additato come pazzo. Ma non era un matto – conclude -, era un anarchico che aveva tanti motivi per diffidare del potere e che venne ucciso proprio perché aveva voluto difendere la sua libertà».