Nei prossimi giorni il consiglio dei ministri discuterà un testo che concede ampie competenze a Venezia. I docenti non saranno più dipendenti del Miur e la loro mobilità si ridurrebbe ai confini veneti. «Si obbligano le persone a fare una scelta di vita da giovani»
Autonomia in Veneto, i prof dipenderebbero dalla Regione Baratto tra il posto fisso e la speranza di tornare in Sicilia
Scegliere il posto fisso ma cancellare la speranza di tornare a vivere in Sicilia. È lo scenario che in un futuro prossimo si potrebbe aprire per centinaia di insegnanti siciliani, e meridionali in genere, che lavorano in Veneto. La Regione guidata dal leghista Luca Zaia punta forte sull’autonomia. Dopo il referendum di un anno fa e l’intesa con il ministero dell’Istruzione per portare a scuola lezioni di cultura veneta (un po’ quello che sta provando a fare anche il governo Musumeci sull’Isola), il prossimo passo è di quelli storici: ottenere l’autonomia amministrativa su 23 tematiche concorrenti con lo Stato. Si va dalla sanità allo sviluppo economico, dai beni culturali all’ambiente, fino, appunto, all’istruzione.
Quest’ultimo settore coinvolge direttamente tantissimi siciliani, che finirebbero per diventare dipendenti non più del ministero, e quindi dello Stato, ma della Regione Veneto, trovandosi di conseguenza limitati a una mobilità interna ai confini di quel territorio. «È un problema serio, significa che se oggi posso fare domanda di trasferimento a Catania o Canicattì, domani al massimo potrò andare da Padova a Vicenza». A parlare è Salvatore Mazza, componente della segreteria regionale della Cgil scuola Veneto. Come è facile intuire dal nome, Mazza è partito, ormai 40 anni fa, dalla Sicilia. «Da Delia precisamente, provincia di Caltanissetta, ma ormai la mia vita è qui».
Ma se quella di Mazza, e di tanti siciliani come lui, è stata una libera scelta, per molti altri rischia di diventare un obbligo. La proposta, contenuta in una delibera del consiglio regionale del Veneto, prevede infatti che «la disciplina dell’organizzazione e del rapporto di lavoro del personale dirigente, docente, amministrativo, tecnico e ausiliario delle istituzioni scolastiche e formative regionali» diventi oggetto di legislazione regionale concorrente. La nuova ministra per gli Affari regionali, la leghista e veneta Erika Stefani, si è messa subito a lavoro e pochi giorni fa ha confermato al Corriere della sera che entro il 22 ottobre una bozza redatta dal suo ministero e concordata con Zaia sarà sul tavolo del consiglio dei ministri. «Ci sono tutte le 23 materie chieste dalla Regione Veneto», ha precisato. Insieme alla competenza su un lungo elenco di temi delicatissimi, al Veneto verrebbero lasciate le risorse economiche per fare fronte ai nuovi impegni: una parte di Iva e di Irpef che al momento incassa il governo nazionale, in proporzione ai costi standard di quella Regione. In altri termini, passerà il principio, da sempre caro alla Lega, secondo cui il territorio che produce più ricchezza tratterrà maggiori fondi.
«Anche se non conosciamo ancora nei dettagli i piani del governo Zaia – spiega Mazza – hanno detto e scritto chiaramente che vogliono regionalizzare i rapporti di lavoro. La paura è concreta e ragionevole. In sostanza si obbligano le persone a fare una scelta di vita quando si è ancora molto giovani». Un baratto tra la stabilità e la rinuncia a tornare nella propria terra. Secondo le stime dei sindacati, in Veneto un insegnante su quattro è meridionale. Ma certamente non tutti intendono tornare al Sud. Anzi, le generazioni più grandi sono ormai stabilizzate e hanno figli inseriti in Veneto. Il problema riguarda quindi soprattutto i più giovani.
La volontà del governo veneto nasce da un’esigenza: colmare il cronico gap di organico. Solo per quanto riguarda il sostegno, mancano 2.500 insegnanti. «E soltanto la metà delle scuole ha un dirigente – aggiunge il sindacalista della Flc Cgil – una situazione impensabile in Sicilia». Trasferendo a Venezia la competenza, si promette di mettere fine a queste lacune, bandendo concorsi senza i vincoli nazionali di Roma. Impedendo di andare via, si garantisce la continuità didattica. Principio, è utile ricordalo, in qualche modo già introdotto a livello nazionale negli ultimi anni con l’obbligo, limitatamente ai ruoli di sostegno, di rimanere almeno cinque anni nel posto assegnato.
Senza volere entrare nella questione prettamente didattica (chi avrà l’ultima parola sui programmi?), resta quella economica. «Il governo regionale – conclude Mazza – lascia intendere che gli stipendi saranno “almeno” pari a quelli garantiti dal Miur». Si pone quindi anche un problema di concorrenza. «Se fossi dipendente regionale – riflette un docente palermitano – avrei sicuramente uno stipendio adeguato agli altri dipendenti regionali, e quindi maggiore». «Credo che a malincuore sceglierei di restare in Veneto – spiega Francesca, insegnante catanese da due anni trasferita nella regione settentrionale – la vita lontani dalla propria terra è difficile, ma è sempre più difficile tornare a casa e vedere con rabbia come tutto vada sempre peggio. Certo – conclude – questa scissione sarebbe davvero pericolosa per l’Italia».