Nessun ricordo ufficiale per i delitti avvenuti nel 1991 a Capaci e nel 1997 in corso Calatafimi a Palermo. Né una targa. E di questi imprenditori che non si piegarono al racket mafioso delle estorsioni non restano oggi che le loro storie di (stra)ordinaria civiltà
Omicidi Sceusa e Bruno, per loro nessuna cerimonia «Li ho uccisi con le mie mani, non pagavano il pizzo»
«Ho assassinato quei due fratelli perché non avevano pagato la tangente». Non si erano piegati, i fratelli Sceusa, Giuseppe e Salvatore, piccoli imprenditori edili di Cerda. A raccontarlo è il pentito Nino Giuffrè, ex numero due di Provenzano, in video collegamento dal sito riservato all’aula bunker del Pagliarelli nel 2002, in occasione del processo d’appello per quel duplice omicidio. «Ho partecipato manualmente a quell’omicidio. Questi due imprenditori non avevano chiesto la dovuta autorizzazione e non avevano pagato la dovuta tangente per effettuare dei lavori in una certa zona. Oggi non mi sembra un motivo valido per eliminare due vite umane». All’epoca sì, evidentemente. Vengono uccisi il 19 giugno di 27 anni fa. È il 1991 quando spariscono nel pomeriggio, a Capaci. Nessuna traccia di entrambi, svaniti nel nulla. E svaniti lo sono davvero, in un certo senso. Attirati in un tranello, vengono strangolati e poi sciolti nell’acido.
Nel commando dei killer ci sono Giovambattista Ferrante e Francesco Onorato, che raccontano ai magistrati di aver partecipato direttamente all’omicidio dei due fratelli, di cui non conoscevano neppure i nomi. Fu «una cortesia da fare agli amici di Caccamo». A partecipare all’omicidio infatti c’è proprio il boss Giuffrè. È lui a emettere la sentenza di morte. Ma a consegnarli al gruppo di carnefici, che attendono i due fratelli da giorni, è un mafioso in doppiopetto: Giuseppe Biondolillo, in passato sindaco di Cerda e garante dell’ascesa dei due fratelli. È proprio lui che li accompagna nella villa da cui non usciranno vivi.
La vicenda si trascina, a livello giudiziario, sino al 2004, anno in cui a sorpresa la Cassazione revoca ben otto ergastoli e conferma una sola condanna, che diventa quindi definitiva, quella a 15 anni per il boss che aveva deciso la morte degli Sceusa, Nino Giuffrè. Processo d’appello da rifare quindi per Salvatore Biondino, ex capomafia della famiglia di San Lorenzo, ma anche per l’ex sindaco di Cerda Giuseppe Biondolillo e per Rosolino Rizzo, ex capomafia del paese. E poi Antonino Troia e Antonino Erasmo Troia, Giovanni Battaglia e i due cugini omonimi Salvatore Biondino, soprannominati il lungo e il corto. Sono passati 14 anni da quella sentenza, e del processo d’appello bis non si trova alcun riferimento, alcuna notizia. Non se la sente di parlare neppure l’avvocato che all’epoca rappresentò i familiari dei due fratelli Sceusa, Massimo Motisi, i cui ricordi, a distanza di tutto questo tempo, sembrano essere sbiaditi.
A morire quello stesso giorno, ma sei anni più tardi, è anche un altro imprenditore palermitano, Angelo Bruno, omonimo del cosiddetto padrino gentile di Caltanissetta a capo di una famiglia mafiosa oltreoceano ucciso nel 1980 a Philadelphia. È il 19 giugno 1997 quando viene freddato con un colpo alla testa, in corso Calatafimi. L’ipotesi della famiglia è immediatamente quella della pista mafiosa, malgrado il costruttore non avesse mai apertamente parlato di aver subito richieste estorsive. A solo poche ore dalla sua morte, però, viene arrestato il boss Salvatore Grigoli, il killer di don Pino Puglisi. Se ne stava nascosto in un monolocale arredato in via Camarda, una traversa di via Pitrè. È latitante da quattro anni. In quella casa gli agenti sequestrano una pistola che servirà per confrontare i proiettili con il bossolo trovato nella testa di Bruno. Il boss di Brancaccio, però, nega ripetutamente di essere coinvolto in questo delitto. E i risultati della scientifica, poco tempo dopo, sembrano dargli ragione: il calibro è lo stesso, ma non è quella 7.65 Parabellum con silenziatore l’arma che ha ucciso il costruttore. A fare il suo nome però sono alcuni pentiti, a cominciare dai fratelli Di Filippo e da altri ex boss del gruppo di fuoco gestito a Brancaccio dai fratelli Graviano.
Al di là degli esiti giudiziari, fuori dalle aule dei tribunali non ci sono targhe sui luoghi in cui vengono uccisi i fratelli Sceusa nel ’91 e Angelo Bruno nel ’97. Eroi civili recenti che non si sono piegati, tutti e tre, al racket del pizzo. E per questo hanno pagato con la vita. Ma a ricordarli, oggi, non ci sono cerimonie ufficiali, né corone di fiori, né appelli.