Il procuratore generale di Palermo, intervenuto a Giurisprudenza in occasione di un convegno dedicato a Falcone e alle verità ancora nascoste, bacchetta la retorica e la memoria corta. «Si ricorda solo il Maxiprocesso. Ma è dopo che è successo tutto. Occorre che anche nelle commemorazioni ufficiali si cominci a raccontare l’altro pezzo della storia»
Dai convegni ai cortei, al via gli eventi in vista del 23 maggio Scarpinato: «Stragi ’92 versione moderna dell’opera dei pupi»
Riusciremo mai a conoscere la verità sulle stragi del ’92-’93? In quanti se lo sono chiesto e se lo domandano tuttora? «In questo Paese non siamo riusciti a conoscere la verità neppure per la strage di Portella della Ginestra, che è avvenuta nel 1947. Così come per tutte le stragi fasciste, da Bologna a Brescia, che hanno insanguinato ininterrottamente la storia di questo Paese. E sappiamo perché: la sentenza della strage di Bologna condanna esponenti dei servizi segreti che hanno depistato le indagini. O perché coloro che conoscevano i segreti dietro le stragi a volte sono stati assassinati. E questa storia arriva fino a noi». Non usa eufemismi il procuratore generale Roberto Scarpinato, intervenuto alla facoltà di Giurisprudenza in occasione dell’incontro intitolato Falcone, la strage e le verità nascoste, organizzato da AntimafiaDuemila insieme all’associazione culturale Falcone e Borsellino, in collaborazione con la Rete Universitaria Mediterranea e ContrariaMente.
«C’è una parte della storia italiana forse destinata a restare segreta, perché le prove sono andate distrutte, perché chi sa non parla perché teme di essere ucciso, perché le indagini sono depistate, ed è una storia che arriva fino al processo per la strage di via D’Amelio, una summa di anomalie». Dai documenti scomparsi alla famosa agenda rossa sottratta nell’immediatezza dell’esplosione. E ancora a distanza di anni non sappiamo chi è l’uomo esterno a Cosa nostra presente quando Gaetano Spatuzza carica la macchina con l’esplosivo, «un personaggio chiave che non era certamente un uomo d’onore». Non sappiamo chi sono gli infiltrati nella polizia a cui fa riferimento la madre del piccolo Di Matteo, quando scongiura il marito, a rapimento già avvenuto, perché avevano un altro figlio. E poi c’è Luigi Ilardo, un infiltrato mafioso esponente della destra eversiva che prima di diventare collaboratore di giustizia ha dato notizie preziosissime: «È lui che ci ha dato per primo il nome di Rampulla, della destra eversiva mafiosa anche lui, come artificiere della strage di Capaci, grazie a lui è stato identificato e sempre Ilardo ci ha fatto catturare una decina di capimafia e ci aveva anticipato che avrebbe rivelato la strategia politica dietro le stragi, ma poco prima di iniziare a collaborare con la magistratura è stato ucciso».
C’è una parte della storia di questo Paese, a detta di Scarpinato, che è una storia segreta, perché le fonti di prova vengono sistematicamente distrutte. E a proposito del processo per via D’Amelio, «abbiamo degli esponenti delle forze di polizia che sono sotto processo perché accusati di aver depistato le indagini introducendo un falso collaboratore. Una summa, un paradigma della storia dell’inquinamento delle prove. Sino al 1992. Chi conosce la storia sa bene che si tratta di una replica del passato». Una storia segreta a conoscenza di alcuni personaggi che ne conoscono tutti i risvolti, come i fratelli Graviano, che «nonostante abbiano circa 50 anni e collaborando con la giustizia abbiano la possibilità di rifarsi una vita tacciono, perché evidentemente ritengono che parlare costerebbe loro un prezzo che non sono disposti a pagare. Questa è la parte della storia segreta. Ma c’è anche una parte della storia che è rimossa in questo Paese».
«Sono nato nel ’52 e al liceo la storia si fermava alla prima guerra mondiale, non si poteva insegnare il fascismo perché molti insegnanti erano stati implicati nell’avventura fascista, non si sapeva come raccontarla questa storia ai giovani. La stessa cosa mi sembra succeda nell’antimafia – dice il procuratore generale -. In occasione delle commemorazioni ufficiali e dei discorsi pubblici la storia dell’antimafia di Falcone e Borsellino è tutta incentrata sul Maxi: si vedono scorrere le immagini, inquadrano l’aula bunker, si vede Luciano Leggio, Michele Greco, altri personaggi che hanno difficoltà a esprimersi in italiano, dopodiché le immagini sfumano sull’esplosione della strage di Capaci, fine della storia. E dire che dopo è successo tutto».
Succede che è possibile portare in giudizio e dimostrare collusi con la mafia vertici dei servizi segreti e uomini delle istituzioni, «tutto quel mondo che era stato la vera causa della via crucis di Falcone e Borsellino, perché non è certo l’ignorante Riina che è artefice delle strategie che portano alla smobilitazione del pool antimafia, quando nel novembre ‘84 vengono arrestato i potentissimi cugini Salvo. E non sono neppure i semi illetterati che vediamo nelle immagini del Maxi gli autori dell’anonimo del corvo, che accusa Falcone di utilizzare Contorno come killer. E non sono certamente loro le menti raffinatissime che Falcone individua come gli strateghi dell’attentato all’Addaura. E Falcone non va via perché qualcuno alla procura di Palermo gli impedisce di fare le indagini su Riina. Va via, come scritto nei suoi diari, perché gli si vuole impedire di fare le indagini sull’omicidio Mattarella, sui rapporti fra Gladio e i servizi segreti, sulle implicazioni della P2 e la mafia. Eppure questa parte della storia non viene raccontata».
Secondo lui i giovani di oggi avrebbero quindi un’immagine distorta, errata dei due giudici uccisi nel ’92, «due eroici magistrati che si sono confrontati con la minoranza di criminali all’interno della società degli onesti e alla fine lo Stato ha vinto, fine della storia. È una versione moderna dell’opera dei pupi: Falcone-Rinaldo in campo contro il turpe Saracino-Riina. E tutti gli altri? – domanda -. Se non ci fossero stati questi pezzi di potere malato della politica, dei servizi segreti, dell’economia, che sono stati la vera forza della mafia – da Calvi a Sindona e Andreotti -, chi sarebbero stati costoro?». La grandezza di Falcone e Borsellino, quindi, non fu – non soltanto almeno – nell’istruire il maxi processo a Cosa nostra, piuttosto quel «mettersi contro un mondo di potere che impedì loro di andare avanti, che non li fece lavorare, che costrinse Falcone ad andare via da Palermo, quello stesso mondo che probabilmente c’è dietro lo stragismo del ’92 e del ’93. Credo che se non vogliamo replicare la storia del mio liceo, se vogliamo fare onore alla loro memoria e non vogliamo consegnare ai nostri figli una storia falsificata e dimezzata occorre che anche nelle commemorazioni ufficiali si cominci a raccontare quest’altro pezzo della storia che purtroppo si racconta soltanto in queste sedi».