Simone La Terra è deceduto sul monte Dhaulagiri, in Nepal, a causa di una violenta raffica di vento che ha sradicato la sua tenda. Il ricordo della parente che trascorreva con lui le vacanze a Punta Braccetto, nel Ragusano. «Ripenso alle risate sui gommoni e ai suoi occhi illuminati quando parlava delle vette da scalare»
L’alpinista di origini siciliane che è morto sull’Himalaya Cugina: «Amava confrontarsi col cielo e la montagna»
La partenza i primi di aprile, il consueto messaggio della sera per dire che andava tutto bene, e poi, all’improvviso, il silenzio. Simone La Terra, l’alpinista di origine siciliana morto sull’Himalaya, domenica non ha scritto alla sua famiglia per dare notizie di sé, ed è così che
inizia una lunga attesa fino alla notizia dell’incidente.
Tra poco avrebbe compiuto 37 anni Simone, ma il monte
Dhaulagiri, in Nepal, la settima vetta più alta al mondo, non gli ha dato scampo. Una
violenta raffica di vento ha sradicato la sua tenda, a quota 6.100 metri, facendolo
precipitare per 800 metri.
Il padre Lorenzo, docente e dirigente scolastico in pensione, è originario di Vittoria, città
dalla quale è emigrato al nord molti anni fa dopo aver vinto un concorso, la mamma invece è di
Siracusa.
Da piccolo Simone, infatti, trascorreva tutte le sue vacanze estive nel Ragusano, a Punta
Braccetto. I genitori amano il mare e almeno per un mese all’anno si trasferiscono nei luoghi di origine, per godersi lunghe gite in barca e pescare. Simone aveva ereditato la
passione per la natura. Poi, intorno ai 20 anni, è nata anche quella particolare per la montagna, specie dopo l’incontro con il celebre rocciatore Fausto De Stefani. Da quel momento la vita di Simone è stata scandita da spedizioni e scalate. Ha raggiunto vette altissime senza
bombole e, per la voglia di condividerle, le ha anche raccontate nel suo libro Attimi al fil di cielo. Era sempre consapevole
delle insidie e dei pericoli della montagna, ma la passione era più forte.
«L’ultima volta che è venuto in Sicilia per le vacanze estive è stato quattro anni fa, poco
dopo essersi sposato», racconta a MeridioNews la cugina Silvana Silvia Crimi, insegnante di Vittoria che
proprio in queste ore ha raggiunto Mantova per unirsi al resto della famiglia. «Ho tantissimi
ricordi di lui da ragazzino – prosegue – come quando uscivamo con i gommoni, e ho
l’immagine di lui a bordo del natante accanto a sua madre e suo padre. Era sempre il più
abbronzato e, ogni anno che tornava, era un po’ più alto. Ho ancora nitida in mente l’eco delle sue risate e i
giochi che amava fare con il padre». L’alpinista che per ben cinque volte ha raggiunto gli ottomila metri sull’Himalaya «crescendo è diventato un uomo generoso, semplice e
disponibile con tutti e caparbio. La montagna che gli è stata fatale – racconta la cugina – aveva già cercato di
scalarla nel 2013. In quell’occasione, si era dovuto fermare a quota 7200 metri a causa
delle avverse condizioni meteo, e il pensiero di riprovarci lo accompagnava
costantemente».
Il Dhaulagiri, dunque, lo aveva già lasciato andare una volta. La
cugina Silvana ha appreso della sua morte dalla zia, che vive a Castiglione delle Stiviere.
«Lei e mia mamma si sentono ogni giorno – continua – e la sera in cui non è arrivato il suo
consueto messaggio nessuno di noi ha chiuso occhio. Simone parlava di montagna con
chiunque, avrebbe potuto farlo per ore senza fermarsi, e quando lo faceva gli si
illuminavano gli occhi. Era un vulcano. Inizialmente la famiglia era spaventata e ha cercato
di farlo desistere dal praticare questo sport estremo – conclude Silvana – ma niente da fare: era
più forte di lui, due volte l’anno doveva partire perché, come diceva lui, doveva
“confrontarsi con il cielo e la montagna“».