«Se tenevi a tuo figlio perché non ritrattavi tutte cose?». Per i fiancheggiatori del superlatitante di Castelvetrano a condannare il bambino non sono stati gli spietati killer di Cosa nostra, ma la decisione del padre di pentirsi e collaborare. Lo Voi: «Dissociati psicologicamente dai delitti più efferati, fino a condividerli»
I clan di Messina Denaro giustificano Totò Riina «Giusto sciogliere il piccolo Di Matteo nell’acido»
«Allora ha sciolto a quello nell’acido…non ha fatto bene? Ha fatto bene…». Quello, nella frase di Vittorio Signorello, presunto fiancheggiatore di Matteo Messina Denaro arrestato con l’operazione Anno Zero, è il piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e poi sciolto nell’acido dai killer di Cosa nostra, dopo 779 giorni di prigionia. All’epoca quasi tredicenne, viene rapito il 23 novembre del 1993 da un maneggio di Piana degli Albanesi: lo scopo è convincere suo padre, l’ex mafioso Santino Di Matteo, a tacere e a ritrattare tutto quello che aveva cominciato a raccontare da quanto era diventato un collaboratore di giustizia. Passano in tutto 25 mesi ma il genitore non si piega. Fino al tragico epilogo, l’11 gennaio del 1996. «Se la stirpe è quella … suo padre perché ha cantato?», replica l’altro, imprenditore estorto da Cosa nostra che di fronte agli agenti polizia rilascia dichiarazioni reticenti che gli valgono una condanna per favoreggiamento personale.
Un episodio emblematico, che rende conto, per usare le parole degli inquirenti, «dei sentimenti atroci e crudeli propri di Cosa nostra, responsabile dei più efferati delitti che hanno colpito, nel corso degli ultimi trent’anni, l’immaginario collettivo». Uno fra tutti proprio quello del piccolo Di Matteo. La conversazione, intercettata il 19 novembre 2017 mentre i due sono a bordo dell’auto di Signorello, si inserisce in un discorso più generico su Totò Riina, scomparso appena due giorni prima, e sul suo operato di padrino. Un argomento che «rivelava l’animo feroce e cruento di Signorello – scrivono i magistrati -, che peraltro non suscitava alcuna reazione contraria nel proprio interlocutore. Le frasi intercettate, nel loro brutale contenuto, rivelavano l’aspetto più disumano e violento del vincolo associativo».
Un vincolo che non ammette tradimento alcuno del legame mafioso. Specie se si tratta di collaborare con la giustizia. Uno sgarro che legittima Cosa nostra a commettere anche le azioni più disumane. Compresa quella di uccidere un bambino, un’atrocità che solo apparentemente contraddice quel presunto codice etico che la mafia da sempre millanta di possedere, a dispetto di tutti i Claudio Domino che però costellano tristemente la sua storia. «Giusto è, punto. Ha rovinato mezza Palermo quello – dice Signorello, alludendo a Santino Di Matteo -. Allora perfetto, perché i cavalli perché li aveva? Grazie a quello…tu sei tu… eh… è pentito… va bene a posto». Una colpa gravissima, quella del pentito, che di fatto giustificava per i due la decisione di ordinarne l’uccisione del figlio e di farlo poi sciogliere nell’acido.
Insomma, a condannare il figlio sarebbe stato in realtà il padre stesso, secondo la visione dei due sodali del superlatitante di Castelvetrano. È lui, Santino Di Matteo, che ha legittimato la brutalità di Cosa nostra. «Il bambino è giusto che non si tocca, però aspetta un minuto – commenta l’imprenditore -, perché se no a due giorni lo poteva sciogliere…Settecento giorni sono due anni…Tu perché non ritrattavi tutte cose? Se tenevi a tuo figlio…Allora sei tu che non ci tenevi». «Giusto! – ribadisce l’altro -. Perfetto, e allora fuori dai coglioni. Dice “io sono in una zona segreta, sono protetto, non mi possono fare niente”. Sì, a te. Però ricordati coglione che una persona la puoi ammazzare una volta, ma la puoi far soffrire un mare di volte. E allora no, minchia, meglio morire. Allora lui ha fatto la sua scelta e quello ha fatto la sua», sentenzia lapidario Signorello.
«Quell’uccisione è stata per loro un’azione corretta, secondo le regole di Cosa nostra – commenta il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi -. Hanno mostrato, con questo discorso, una disponibilità quantomeno psicologica e intellettuale a porre in essere tutto ciò, che era giusto secondo le loro regole. Non voglio creare allarmi di alcun tipo, il nostro sistema di protezione ha sempre garantito la tutela necessaria a tutti i soggetti che hanno deciso di abbandonare Cosa nostra, e così pure per i loro familiari. Ma mi preme segnalare questa conversazione perché conferma un certo modo di intendere le regole di Cosa nostra ed evidenzia come, nonostante l’efferatezza di quel delitto e di altri, i due se ne fossero dissociati psicologicamente, parlandone piuttosto in termini positivi e di condivisione».