Un blog audio-video per raccontare sei storie di "paesaggi priolesi". Sei racconti di vite devastate dalla presenza del polo petrolchimico. La prima, che Step1 vi ripropone, parla di una mamma, Alessandra, e di Valerio, il suo bimbo nato e morto dopo due settimane per una malformazione al cuore. Sotto accusa i veleni di ciminiere e scarichi a mare
Lo stupro di Priolo
Un’urgenza: quella di raccontare. Per non dimenticare, per far conoscere sei storie di paesaggi priolesi. “Una ricerca scientificamente umana”, la definisce l’urbanista Salvo Messina, che, insieme a Roberto Sammito, redattore di Radio Zammù, ha dato vita al blog Storie di paesaggi priolesi. Racconti di vita e di morte “frutto di un intenso lavoro di ricerca in uno dei territori più stuprati della Sicilia – scrive Messina – Rischio sismico, industriale, idrogeologico e democratico assoggettano una comunità allo strazio del non percepire un futuro diverso e migliore per il proprio luogo di vita. Sammito, giornalista e speaker della Radio d’Ateneo, ne ha curato la versione audio perché – spiega – “ho deciso di prestare la mia voce a chi non ne ha avuto, a chi non è stato ascoltato.
Ecco la prima di queste storie, quella di Alessandra e Valerio.
Storie di paesaggi priolesi 1 – Alessandra per Valerio by robertosammito
L’appartamento di Alessandra 56 anni, è appena fuori il centro di Priolo, prima della frazione di San Focà. È pulito, semplice ma curato. Nel soggiorno predomina il color ciliegio, dei mobili in legno. Sono qui perchè Alessandra fa parte della Associazione Genitori Bambini Malformati. E vorrei raccontata la sua storia. E vorrei non piangere alla fine.
Alessandra torna dalla cucina con dei biscotti e un succo di frutta. “I biscotti, sono fatti in casa, ma tranquillo, non con l’acqua di Priolo, con l’acqua Rocchetta!” Risate. Con la sua battuta e il suo sorriso riesce per un attimo a tranquillizzarmi. Parliamo del più e del meno: del caldo, della politica americana in Iraq. Poi comincia la sua storia.
“Sono arrivata con mio marito a Priolo, nel 1970, lui era impiegato dell’Erg a Genova e fu chiamato qui in Sicilia per ricoprire il ruolo di responsabile tecnico dell’area insacco fertilizzanti. Quando siamo arrivati, eravamo appena sposati pieni di entusiasmo e voglia di fare. Mio marito guadagnava di più e qui la vita era meno cara, io sono diplomata al magistrale e cercavo un posto a scuola, ma poiché non avevamo problemi di soldi, stare a casa a fare la casalinga non mi pesava più di tanto.
Ma non vivevamo qui purtroppo, qui siamo lontani dalle fabbriche, vivevamo nei pressi degli stabilimenti vicino al mare. La puzza entrava ovunque, non si respirava. Ogni mezz’ora durante lo sfiaccolamento veniva il volta stomaco. Non scorderò mai una cosa: quando stendevo i panni al balcone, dopo la fuoriuscita dei gas dovevo lavare tutto di nuovo. Tutto puzzava. I capi erano neri di cenere. All’epoca a Priolo tutti sapevamo, tutti subivamo gli stessi danni, ma nessuno parlava, giudicavamo effetti normali, quelle cose. Come la schiuma dopo che versi la birra: un processo naturale e senza conseguenze. Ma sbagliavo io che continuavo a tenere le finestre spalancate quasi sempre per cambiare l’aria, sbagliava mio marito che continuava a tranquillizzarmi: “ho chiesto in fabbrica dicono che è solo acqua cristallizzata dopo il processo di lavorazione”, sbagliavano i miei vicini che in agosto facevano grigliate di pesce e passavano la notte sui balconi, sbagliavamo tutti. Priolo era stata totalmente inebetita, lobotomizzata dalle industrie e dalle loro bugie”.
Alessandra si alza e dalla libreria tira fuori un album di foto. Tremo. Mia madre ne ha uno uguale. Poi torna a sedersi. “Rimasi incinta di mio figlio Valerio, nel 1973 a settembre. Io e mio marito eravamo davvero felici, aspettavamo questo figlio da tanto e ora… le giuro, ingegnere, dal giorno dopo la notizia del mio stato interessante, iniziammo a girare per la culla, il biberon, i bavaglini… dopo cinque mesi avevo un bel pancione, e mia madre che viveva a Genova venne a stare un po’ con noi, per darmi una mano. Fu lei a iniziare a dirmi certe cose: ‘Sandrina, ma non senti che puzza, non vedi cosa esce dal naso quando starnutisci sul fazzoletto? Non vedi che su questi vestiti ci sono gli stessi cristalli che ti ritrovi nel fazzoletto? Ci stiamo inghiottendo tutto… attenta al bimbo…’. Ma io la rimproveravo di essere troppo esagerata.’Mamma smettila! Sei tu che vieni da freddo e vuoi tenere le finestre chiuse, guarda che bel sole!…E che ne sai tu di pesce e pomodori! Poi Luigi (il marito) dice di non preoccuparsi è normale, e il pediatra dice che il bimbo cresce bene’”.
Scende il silenzio fra noi. Un silenzio di almeno cinque minuti. Alessandra inizia a sfogliare l’album velocemente avanti e indietro. Inizio a giocare con la trapunta sul tavolo per mascherare il mio imbarazzo. Lei se ne accorge, chiede scusa e ricomincia, ma io vorrei interrompere qui. Forse è troppo tutto questo anche per me, sarò pronto ad ascoltare quello che già penso di sapere?
“Valerio nacque di tre chili e mezzo, era dritto come un soldatino, lungo e secco. Dritto dritto. Neanche piangeva, sembrava un rantolo. Stette fra le mie braccia per soli due minuti. Capii subito che c’era qualcosa che non andava: intorno a me era un fuggi fuggi di medici. Il bimbo era cianotico, non respirava bene, me lo strapparono dalle braccia per portarlo in rianimazione. Si scoprì, che Valerio era affetto da una malformazione congenita al cuore. Il suo cuoricino era troppo grosso e non pompava bene il sangue”.
Apre l’album e mi mostra delle foto che faccio fatica a raccontare adesso. Un esserino violaceo immerso in una selva di tubi e tubetti. Ho il cuore a pezzi e mi maledico per aver fatto questa intervista e per aver riaperto una ferita nel petto di questa donna. Ma che cavolo sto facendo? Chi sono io per fare tutto ciò? Al diavolo me, il mio progetto e il paesaggio. Dico ad Alessandra: “Forse è meglio finire qui, mi scusi…”. Vado per staccare il registratore, ma lei mi blocca. “No – dice – non ci sono problemi, voglio che lei sappia che tutti sappiano come questi (gli stabilimenti industriali) hanno rovinato la mia vita. Valerio, morì in un paio di settimane. Abbiamo avuto solo il tempo di battezzarlo e dargli l’estrema unzione”.
Lascio che di nuovo il silenzio si posi sulle briciole dei biscotti, sull’album aperto, sulla sua gonna a fiori, sulle mie mani sudate. Non dico più nulla non ci riesco. Per me potremmo restare in silenzio per sempre. È lei adesso la voce da aspettare, senza fretta. “Tutti pensavano fosse un caso. Ma anche le mie amiche, le mie vicine di casa, le mogli dei colleghi di Luigi, negli anni avevano avuto aborti spontanei o avevano perso i bimbi nelle prime settimane o crescevano con gravi ed incurabili malformazioni… cioè nascevano senza un dito del piede, o senza un perone, o senza un testicolo. No, non poteva essere un caso. Solo alla fine degli anni ’80 si riuscì ad associare il fenomeno delle malformazioni perinatali alle sostanze nocive lavorate in fabbrica, in particolare sono dovuti a tutti i metalli pesanti disciolti in atmosfera o nel mare che noi respiriamo o ingeriamo attraverso il pesce per esempio. Adesso è una realtà, basta vedere i dati dell’Asmac per rendersi conto quanti bambini hanno ucciso o danneggiato queste industrie. Vorrei che questi soffocassero fra lo schifo che buttano in aria. Ormai questo è certo. Accertato. Si sa. Eppure, niente cambia. Non ho più avuto figli. Non potevo più averne, dopo quella gravidanza rimasi sterile. Dopo questa vicenda mio marito mi chiese se volessi andare via da Priolo. Ma io non me ne andrò mai. Mai! Sarò felice solo quando questo paese riuscirà a rialzarsi, e a chiedere giustizia per i suoi bambini, per i suoi angeli. Quando Priolo non sarà più considerata una fabbrica di veleni e morti, ma un paese con una sua identità e qualità, una città piena di bambini pieni di salute e genitori allegri. Racconti la mia storia ingegnere, la storia di Valerio e di tutti gli altri bimbi in sofferenza”.
Stacco il registratore. E le prometto che presto o tardi questa storia sarà scritta e letta. Uscendo da casa di Alessandra non riesco ad alzare gli occhi da terra. Sì, devo raccontare questa storia e questa storia deve fare parte della mia ricerca. In macchina, carico il cd dei Radiohead Ok Computer. Alla traccia 4 Exit Music (for a film), quando Tom Yorke canta “we hope that you choke ” -noi speriamo che voi soffochiate, ritorna in mente la foto di Valerio e gli occhi di Alessandra. E allora accosto e piango. Piango a dirotto.
Finalmente.