Il sequestro della nave di Proactiva, la difesa della ong «Protagonismo pm basato su convinzioni ideologiche»

«Un protagonismo ispirato da convincimenti squisitamente ideologici». «Nessun elemento investigativo che dia conto dell’esistenza di un’associazione a delinquere». E ancora: «Lo stigma di infamia che connota questa imputazione assume aspetti di gratuità inquietanti». Non si sono incrociati ieri, nei corridoi del Tribunale di Catania, gli attivisti e gli avvocati della ong Proactiva Open Arms con il procuratore capo Carmelo Zuccaro. Quello che i legali della organizzazione spagnola avevano da dire lo hanno messo, nero su bianco, nella memoria difensiva consegnata al Gip di Catania che dovrà decidere – presumibilmente nei primi giorni della prossima settimana – sul dissequestro della nave usata per salvare i migranti nel Mediterraneo e che è ferma al porto di Pozzallo su disposizione della Procura etnea. 

Associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Sono le accuse che i pm contestano a tre esponenti di Proactiva: la capa missione Ana Isabel Montes Mier, il comandante Marc Reig Creus e il coordinatore generale dell’organizzazione Gerard Canals. Le contestazioni riguardano uno specifico episodio, avvenuto in acque internazionali, lo scorso il 16 marzo, quando la ong ha portato in salvo 218 migranti, opponendosi alla Guardia costiera libica che, giunta poco dopo, voleva riportarli indietro. La nave spagnola è sbarcata a Pozzallo, dopo un lungo braccio di ferro per individuare il porto di destinazione. 

Nella memoria difensiva, prima di entrare nel merito di quanto accaduto durante il salvataggio, l’avvocato Alessandro Gamberini, difensore della capa missione, punta il dito contro l’accusa di associazione a delinquere, «la gruccia alla quale si appende l’esistenza stessa dell’indagine aperta dalla Procura di Catania». La tesi è: non c’è un solo elemento investigativo utile a provare l’esistenza di «un programma illecito che abbia affiancato o sostituito le ordinarie finalità statutarie dell’organizzazione», e cioè la ricerca e il soccorso in mare dei migranti in conformità con le leggi nazionali e internazionali. Le accuse non vanno cioè oltre un singolo episodio. 

Altra questione è l’eventuale violazione del codice di condotta voluto dal ministro Minniti e sottoscritto dalle ong rimaste a prestare soccorso nel Mediterraneo. Uno dei punti del documento prevede «l’impegno a non ostacolare l’attività di Search and Rescue da parte della Guardia costiera libica». Cosa che la ong avrebbe fatto opponendosi alla richiesta dei libici – armi in pugno e minacciando di morte attivisti e migranti, come dimostra un video realizzato da una giornalista a bordo della nave Open Arms – di consegnare loro i migranti. I legali sottolineano però che l’impegno è espressamente riferito alle acque territoriali libiche, e non a quelle internazionali dove è avvenuto il salvataggio, cioè a 73 miglia dalla costa libica. Un punto che, secondo la Procura di Catania, rientra nella zona Sar del Paese nordafricano. Definizione controversa e contestata sia da docenti di diritto internazionale che nella memoria difensiva, dove si ricorda che la Libia, a dicembre, ha ritirato la propria richiesta di riconoscimento di certificazione della propria zona Sar all’Organizzazione marittima internazionale. 

Altra accusa che i legali cercano di smontare è il dialogo che c’è stato tra il comandante della nave e Malta. A causa della necessità di prestare cure mediche a un neonato in gravi condizioni, l’imbarcazione della ong si ferma nell’isola al centro del Mediterraneo. Dove le autorità maltesi chiedono al capitano quali siano le sue intenzioni. La risposta è proseguire verso Nord, cioè verso la Sicilia. Sta qui, secondo i pm etnei, la manifesta volontà di portare i migranti in Italia, nonostante non fossero più in pericolo di vita e vi fosse un’alternativa rappresentata proprio da Malta. «Nessuna disponibilità all’accoglienza da parte di Malta – replicano gli avvocati – È l’unico Stato europeo a non accettare il principio per cui il governo responsabile per la regione Sar in cui sono stati recuperati i sopravvissuti, è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito». 

Questa la difesa nel merito di quanto avvenuto in quelle tormentate 48 ore. Ma, facendo un passo indietro, si avanza un’altra domanda: l’eventuale violazione del codice di condotta sottoscritto al ministero dell’Interno, può provocare una sanzione penale? Ovviamente no per i legali, perché si tratta di «una fonte priva di rango normativo legale». Un quesito a cui dovrà rispondere il gip di Catania. A meno che non dichiari la sua incompetenza territoriale sulla materia, spedendo il caso a Ragusa. Se così fosse, cadrebbe l’accusa di associazione a delinquere e quindi il motivo della nuova contrapposizione tra ong e Procura di Catania.


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