Una donna che combatte per due

Mina Welby è una donna minuta, dalla voce bassa e lo sguardo timido. Il suo è un nome che conosciamo perché la cronaca ne ha spesso parlato come “la moglie di”. Mina però non è una moglie, né una donna come tante altre. La malattia che ha condotto il marito Piergiorgio Welby alla morte nel 2006, la Sla, l’ha fatta diventare una donna forte, in prima linea insieme all’associazione Luca Coscioni, in una battaglia civile per la libertà di scelta e l’autodeterminazione. Piergiorgio, sin dall’età di 16 anni, era affetto da distrofia muscolare degenerativa. Questo non gli ha impedito di dipingere, scrivere, viaggiare e innamorarsi, fino a combattere da un letto, ultimamente con il solo sguardo, per il diritto a morire con dignità. Al suo fianco aveva Mina, che ha rinunciato ad un dolore intimo e privato per diventare insieme al marito, prima ancora che un caso giuridico o mediatico, una testimone militante della loro storia.

Mina, cos’era la vita per Piergiorgio?
«L’esistenza di Piergiorgio è stata segnata dalla malattia fin dal principio. Quella malattia era parte integrante della sua vita. Nonostante ciò, ha cercato insieme a me di avere quello che di bello questa vita poteva ancora dargli. L’abbiamo vissuta insieme e l’abbiamo usata come strumento per arrivare a scoprire nuove tecnologie che migliorassero la qualità della vita, non solo per noi, ma per gli altri. Volevamo far capire che oggi c’era la possibilità di continuare a vivere. Negli anni ‘60 la persona disabile era una persona finita, da nascondere dentro casa. Noi siamo usciti e abbiamo reclamato i nostri diritti, uguali a quelli di tutti. Per questo penso che oggi i disabili dovrebbero essere aiutati ed integrati nella società, ad esempio, immettendoli nel mondo del lavoro».

Suo marito quando ha capito e ha deciso che non era più il momento di combattere?
«Quando non c’era più nulla da combattere. Quando non c’erano più forze lui mi ha detto: “Mina, abbiamo avuto tutto dalla vita, ma adesso è tutto finito”. Il suo corpo era finito, non era rimasto nulla, e lui ha detto “adesso è l’ora di morire”. Era già pronto alla morte, si preparava da anni».

La vostra non è stata una battaglia per la morte, ma per l’autodeterminazione e la libertà di scelta.
«Assolutamente si. E’ importante che ogni persona abbia la possibilità di scegliere. Scegliere di continuare le cure o di andare via e riconoscere che la morte fa parte della vita. Ciascuno ha diritto di trovare un porto sicuro dove poi la barca approda».

In questo vostro percorso, chi vi ha sostenuto e chi vi ha ostacolato?
«E’ stato molto difficile, ma ci siamo sostenuti a vicenda. Ci hanno aiutati i compagni radicali che hanno reclamato insieme a noi i nostri diritti. Io sono stata molto resistente ed egoista perché non volevo lasciarlo andare. “Non ti lascio morire non ti do il divorzio” gli dicevo. Però poi, tre giorni prima della sua morte, sono stata insieme a lui e ho scelto insieme a lui».

Un dolore vissuto dapprima intimamente e in silenzio, poi sotto i riflettori. Lo rifarebbe? Ne è valsa la pena di portare fuori dalla camera di Piergiorgio questa malattia?
«Certamente ne è valsa la pena, e lo fanno oggi anche altri malati che portano fuori la loro malattia e fanno vedere che vogliono vivere comunque. Attaccati ad un respiratore, senza una voce propria ma aiutati da un computer. Sono tanti e lo fanno perché la gente possa sapere che ci sono anche loro. Per questo è importante che ogni cittadino paghi le tasse, per garantire a tutti l’assistenza e le cure sanitarie necessarie».

La legge in voto al Senato rischia di diventare una legge del solo Parlamento, una legge ideologizzata, non condivisa dai cittadini. Ma a chi fa paura il testamento biologico?
«I politici hanno una sola morale, la loro, e vogliono imporla a tutti i cittadini. Ciò che invece dovremmo imporre loro è di darci una legge che rappresenti la morale di tutti noi cittadini. Non c’è motivo di temere una legge sul testamento biologico perché sarebbe solo uno strumento di libertà. Non vogliamo imporre niente a nessuno. Chi crede in questo strumento può manifestare la sua volontà e decidere a quali trattamenti essere sottoposto in caso di incapacità, chi non ci crede può non ricorrervi mai».

Un incontro come questo, con tanti giovani, che speranza le dà?
«Io ho grandissima speranza e fiducia in loro perché sono attenti a vicende e tematiche complesse come questa, e sono molto motivati. Il futuro è nei giovani di adesso».


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