Abdelfetah, migrante e attivista eritreo si racconta  «Catania la mia città, qui ho realizzato i miei sogni»

Abdelfetah Mohamed. Non è questo il suo nome, in realtà. O meglio, non lo era fino a quando non è sbarcato in Italia. Se l’è scelto da solo. Abdelfetah non sa nemmeno quanti anni ha con esattezza e, per rispondere alle domande della burocrazia italiana, ha deciso anche la sua data di nascita. Insomma, Abdelfetah si è scelto un destino quando, da un’Eritrea tormentata dalla dittatura e dalla guerra, è fuggito in Sudan, poi dal Sudan alla Libia, infine dalla Libia all’Italia. Adesso ha scelto di raccontare questo destino in un libro. Le cicogne nere (Istos Edizioni), volume curato dal giornalista del Fatto quotidiano Saul Caia, sarà in libreria dal 7 dicembre. Frattanto Abdelfetah ne racconta a MeridioNews alcuni sprazzi.

Come mai hai deciso di scrivere questo libro?
«Quando sei migrante, tutti ti chiedono la tua storia. Oggi, poi, quello della migrazione è anche uno dei temi politici più importanti e non mi convince il modo in cui se ne parla: si è formata un’opinione pubblica, anche con le migliori intenzioni, ma lontana dalla realtà, dalle singole esperienze. Perciò ho deciso di raccontare la mia storia personale, senza numeri o statistiche, ma con persone, sentimenti, rabbia, delusione».

Posso chiederti quanti anni hai?
«Ecco, il mio libro parte proprio da questo. Quando ho messo piede in Italia, il questore insisteva per avere una data di nascita. Prima di allora, la cosa non mi aveva mai interessato e davvero non la conosco. A volte le persone quasi mi compatiscono per questo, ma mia madre diceva che “se conosci la tua data di nascita pensi sempre a quello che rimane della tua vita, alla morte“. La priorità delle cose è relativa: da noi l’importante è pensare a come sopravvivere. Ma siccome qui siete ossessionati, ho dovuto scegliere un giorno ma qualche volta lo cambio. Al momento per esempio ho due compleanni».

Dove sei nato?
«In Sudan, in un campo profughi a 20 chilometri dal confine con l’Eritrea. La mia famiglia è fuggita lì durante la colonizzazione, ma non voleva allontanarsi troppo dalla sua terra. Quando in Eritrea è finita la guerra di liberazione siamo potuti rientrare, anche se non per molto. Dopo la liberazione c’è stata la dittatura, poi ancora la guerra nel 1998. Siamo stati costretti a tornare in quello stesso campo profughi dov’ero nato. È stato uno shock. Poi ho visto il carcere e ho dovuto fare il servizio militare in Eritrea. È stato a quel punto che ho deciso di fuggire. E una volta che scappi, non puoi fermarti più. L’Africa è come una grande fiera, vedi esposte le armi di tutto il mondo: russe, arabe, americane, europee. Ogni paese trova un buon motivo per cacciarti, che sia Dio, la libertà o la politica. Ti portano in un vicolo cieco e, alla fine, davanti hai solo il mare».

Quando hai preso la strada del mare?
«Ho abbandonato l’Eritrea nel 2002. Poi nel 2008 dal Sudan sono andato in Libia. Lì avevo un lavoro, sono stato bene per tre anni. Poi la guerra mi ha trovato anche lì, quando è esplosa la Primavera araba. Ci hanno spinti sul mare come merce di scambio per ricattare l’Europa, come per anni Gheddafi ci aveva trattenuti. Per molto tempo nelle prigioni libiche c’erano stati quelli che sarebbero diventati trafficanti di persone, usate come strumento politico. E poi non è che si prenda direttamente il mare, c’è tutto un percorso. Quando c’è la notizia dell’arrivo di duecento migranti e venti salme, per esempio, io so che sono partiti in duemila. In Europa, scoppierebbe un caso internazionale per tanti morti ma il vero scandalo è che ormai qui questa è considerata la normalità».

Chi hai lasciato in Africa?
«Tutti. La mia famiglia è in Sudan».

Cosa fai adesso?
«Ho collaborato con diverse organizzazioni umanitarie, come mediatore culturale. Ho anche fatto un’esperienza sulla nave di salvataggio. Dopo essere stato migrante, da sud a nord, ho fatto il viaggio al contrario, come soccorritore».

E pensi mai di rifare il viaggio per intero, di tornare in Eritrea?
«Se domani mi dicessero che l’Eritrea è un luogo sicuro, ci tornerei subito».

Quindi, se tu dovessi pensare a un luogo come la tua patria, sarebbe l’Eritrea?
«In realtà, ultimamente penso più a Catania in questo senso perché è l’unica città dove sono riuscito a realizzare i miei sogni. Ora sono uno studente universitario, e mai avrei potuto immaginarlo. Invece questa città, solo questa, mi ha dato la possibilità di iscrivermi senza documenti né altro. Qui ho seguito un percorso di integrazione che mi ha permesso di conoscere tutte le realtà legate alla migrazione come attivista. Alla Croce Rossa ho fatto partire il Safe Point,  un progetto che ora è riconosciuto a livello nazionale. Questo territorio mi ha dato tanto e ho voluto dirgli grazie con questo libro. Ecco perché l’ho scritto».


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