Sono passati ventisei anni da quel 29 agosto 1991, giorno in cui l’imprenditore palermitano veniva ucciso in via Alfieri per non essersi piegato alle richieste della mafia e avere portato la propria storia sui giornali e in tv. Meno note, forse, le persone che, prima e dopo, hanno fatto lo stesso, pagando con la vita
Non solo Grassi, storie di chi si è ribellato al pizzo Sono tanti i nomi rimasti fuori dalle celebrazioni
È il 29 agosto, come oggi. Ma di ventisei anni fa. A Palermo fa lo stesso caldo torrido di queste settimane. E per molti, ormai, le ferie sono finite, anche se la città fatica ancora a riempirsi. Non tutti però sono andati in vacanza. Non c’è andato Salvino Madonia, che adesso se ne sta acquattato tra le vie palermitane di poeti e scrittori. Aspetta. E non deve attendere troppo. Qualcun altro, come lui, s’è alzato di buon mattino e già alle sette e mezza è in strada, cammina a piedi, da solo, si dirige verso la Sigma, che non è lo storico supermercato ma un’impresa di biancheria, l’ha fondata lui. Fa pochi metri, poi quattro colpi di pistola lo atterrano, lì in via Alfieri. In terra è subito una pozza di sangue che si allarga veloce, sotto la sua testa girata come per guardare, gli occhi ancora aperti. Muore così Libero Grassi, per aver raccontato attraverso giornali e tv delle minacce ricevute dal picciotto di turno mandato da Cosa nostra. Una storia di coraggiosa e sovversiva resistenza, la sua, diventata nazionale, di tutti. Libero Grassi è un simbolo di lotta in cui riconoscersi, e di questo la mafia ha paura. Perciò si arma, si apposta, aspetta.
«Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al geometra Anzalone e diremo no a tutti quelli come lui». Scrive così Libero Grassi nella lettera rivolta ai suoi aguzzini pubblicata nell’edizione del 10 gennaio 1991 del Giornale di Sicilia. Inconsapevole forse di aver firmato la propria condanna a morte. Ventisei anni da quel giorno, da quell’omicidio. Di cose ne sono cambiate parecchie, anche se la strada è ancora tanta, forse meno in salita. Prima e dopo di lui, però, sono tanti i palermitani che hanno fatto la stessa scelta di civiltà. Magari senza finire sui giornali, fatta eccezione per un trafiletto a margine, ma a cadavere ormai freddo. Storie che infestano le vie di Palermo, e un po’ meno i ricordi della gente. Figli di un dio minore, per i quali non ci sono corone, minuti di silenzio, veleggiate di legalità in mare.
C’è Francesco Paolo Chiaramonte, ad esempio. È un piccolo imprenditore, ma non si occupa di tessuti e biancheria. Gestisce una macelleria in via san Filippo, a Borgo Ulivia. Muore anche lui in un giorno d’agosto del 1976, quando in quattro fanno irruzione nel suo negozio, imbracciano fucili e stringono pistole. Lui è dietro il banco da lavoro, in mano regge ancora il coltello per tagliare la carne. «Cosa volete?». La risposta è una sparatoria che non gli lascia scampo. Ha 29 anni, una moglie e due figli. E non aveva ceduto alle richieste estorsive dei mafiosi della zona. Giovanni Gambino, invece, ha 36 anni quando in viale Regione Siciliana due killer a bordo di una grossa moto affiancano la sua auto, all’altezza di Bonagia. Svuotano i caricatori, muore subito. Giorni prima gli avevano chiesto 300 milioni di lire, il prezzo da pagare per il successo della sua Soft drink a Brancaccio, che sfornava la famosa partannina, ma anche la sanguinella e il passito. Non arriva neppure a fare la denuncia, basta il suo no per telefono a condannarlo.
A Pietro Patti, invece, proprietario di un’industria alimentare, non chiedono solo i soldi, mezzo miliardo di lire. A lui distruggono anche un capannone e bruciano l’automobile. «La prossima volta le facciamo saltare il cervello». Sono di parola. Lo fanno nel febbraio 1985 davanti alle figlie terrorizzate. Una calibro 38 gli spara tre colpi alla tempia. Uno lo trapassa, conficcandosi nel petto di Gaia, la figlia di nove anni. Solo cinque giorni prima, a morire era stato l’ingegnere Roberto Puglisi, presidente della Palermo Calcio. E neanche un mese più tardi la mafia ripete il suo copione e uccide il ventottenne Giovanni Carbone, fa l’imprenditore edile e anche lui, come tanti prima e altri dopo, non accetta di piegarsi alle richieste estorsive di Cosa nostra.
Nel 1990 tocca al geometra Vincenzo Miceli, che aveva un’impresa di costruzioni a Monreale. Lui a denunciare i suoi estortori ci arriva e lo fa più d’una volta, ma la risposta dello Stato che dovrebbe proteggerlo non fa in tempo contro i proiettili dei padrini di San Giuseppe Jato. E poi c’è Angelo Bruno, imprenditore edile. Del pizzo e dell’impossibilità di far fronte alle richieste sempre maggiori non fa parola a nessuno, nemmeno alla famiglia. Ma non riesce a mascherare la preoccupazione. Muore il 19 giugno 1997 e a finire in cella dopo poche ore soltanto è Salvatore Grigoli, braccio destro dei fratelli Graviano e uno dei killer di padre Pino Puglisi. Lo stesso giorno di sei anni prima, è il 1991 di Libero Grassi, a morire sono i fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, piccoli imprenditori edili anche loro, uccisi e dissolti nell’acido a Capaci. Tutte storie, a modo loro, di (stra)ordinario coraggio.