Sicilian ghost story, pellicola sul piccolo Di Matteo Registi: «Nel suo paese non c’è nulla che lo ricordi»

«È un epoca di celebrazioni antimafia e di ricordo delle vittime, eppure questo bambino che a soli 13 anni ha avuto a che fare con Cosa nostra è caduto nel dimenticatoio, non c’è una scuola a lui dedicata e persino nel paese in cui viveva non c’è nulla che lo ricordi. E questo ci sembrava ingiusto». A parlare è Antonio Piazza, regista insieme a Fabio Grassadonia di Sicilian Ghost Story, favola girata a Troina e al cinema dal 18 maggio che si immerge in un’atmosfera degna dei fratelli Grimm, ispirata e dedicata alla storia di Giuseppe Di Matteo – figlio del pentito di mafia Santino Di Matteo – che nel ’93 fu strangolato e sciolto nell’acido dopo un sequestro durato circa due anni.

«Siamo entrambi palermitani e questa storia perseguita la nostra coscienza – racconta Piazza a MeridioNews a poche ore dalla presentazione di ieri sera al cinema King di Catania – Ma colpì molto l’opinione pubblica e determinò anche il rapporto mio e di Fabio con la Sicilia». Per questo quando sono diventati autori e sceneggiatori hanno deciso di raccontarla, nonostante la difficoltà di dare una chiave di speranza, necessaria per non fermarsi all’orrore di quei fatti.

«Questa possibilità ci è stata offerta dalla lettura del racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola, che raccoglie storie di cronache terribili della storia italiana recente in cui viene aggiunta una dimensione fantastica che consegna alle vittime protagoniste una sorta di riscatto». Come quello offerto dall’amore sincero tra il piccolo Giuseppe, Gaetano Fernandez, e la compagna di classe Luna, interpretata da Julia Jedlikowska, l’unica che non si rassegna alla sua misteriosa sparizione, si ribella al clima di omertà e complicità che la circondano e discende nel mondo oscuro che lo ha inghiottito e che ha in un lago una misteriosa via d’accesso.

Gaetano e Julia non conoscevano questa vicenda prima di partecipare ai provini, così come tanti loro coetanei, ma anche ventenni, che al massimo ne hanno una concezione vaga e distante. «Lavorare con i ragazzi, vivere con loro, significa non staccare mai – raccontano i registi – Mangiare insieme, suonare la chitarra, cantare, giocare a calcio, andare al mare, vedere un film».

Per costruire in pochi mesi la favola che si muove fra due piani, quello fantastico e quello della realtà, basato sulla ricerca storica dei fatti. «Prima di cominciare a lavorare sulla sceneggiatura abbiamo letto gli atti dei processi che nel corso degli anni sono stati fatti contro i criminali che hanno perpetrato il sequestro e l’omicidio del bambino, i libri di ricostruzione storica dell’accadimento, compresi quelli dei carnefici. Siamo stati nei luoghi nei quali si è compiuta la via crucis del bambino».

Un impegno premiato durante il festival di Cannes, dove per la prima volta un film italiano ha aperto la sezione della critica, la stessa in cui i registi nel 2003 hanno ricevuto riconoscimento per Salvo, il loro primo lungometraggio. «È stata un’esperienza determinante per il futuro del film non solo in Italia ma anche all’estero – conclude Piazza -. I rapporti con loro non si sono mai interrotti perché uno degli scopi di questo grande mercato del cinema è lanciare i film anche fuori dai confini nazionali ed europei e il nostro è già stato esportato in dieci paesi, tra cui Cina e Brasile». 


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