Proteste clamorose, trionfi effimeri, lotte di campanile: in materia di decentramenti dell'Università di Catania, pochi hanno voglia di fare un bilancio serio. Un bilancio che riconosca gli sbagli della classe politica che si muove intorno ai consorzi. Ma anche quelli dellateneo - Occhio ai numeri - Di nuovo sull'orlo del baratro di Lucia Occhipinti
Perseverare, diabolicum!
Riempie di sgomento l’allegra spensieratezza con cui gli amministratori dei consorzi universitari, spalleggiati da sindaci e presidenti di provincia, deputati regionali e nazionali, consiglieri della maggioranza e dell’opposizione, dopo aver imbastito clamorose proteste, dopo aver salutato come una vittoria l’effimero mantenimento per il solo anno accademico 2009/2010 delle iscrizioni al primo anno anche di corsi di laurea a rischio di chiusura, continuano ad adoperare a sproposito termini come “sistema di eccellenze”, “centralità euromediterranea”, “alti standard di qualità”.
Riempie d’incredulità – e non promette nulla di buono – che la discussione di merito sia affidata a “tavoli tecnici”, mentre studenti e famiglie, e più in generale l’opinione pubblica, continuano ad essere intossicati dal più ottuso campanilismo; come se l’Università degli Studi di Catania non fosse un patrimonio dell’intera Sicilia del Sud-Est che è interesse di tutti supportare.
E’ sconcertante il fatto che si continui ad ignorare l’urgenza di un bilancio di oltre dieci anni di “decentramento” universitario a Siracusa e Ragusa, oltre a Modica, Comiso Gela, Noto, Priolo, Caltagirone, Caltanissetta, Piazza Armerina, ecc. (Il sindaco di Roccafiorita ci scusi se, per difetto d’informazione, avessimo omesso di citare un qualche tentativo di decentramento universitario anche nel comune più piccolo di Sicilia, ma non per questo meno nobile.)
Anche le facoltà e l’ateneo non sono privi di responsabilità nell’avere assecondato la proliferazione dei corsi decentrati al di là d’ogni ragionamento e d’ogni programmazione. Si può dire, come attenuante, che si trattava di un fatto epocale. Tutte le università si erano messe in cammino “verso la provincia”, in un inarrestabile moto centrifugo che faceva nascere dappertutto nuove allocazioni, nuove sedi didattiche e “poli”. Il fenomeno interessava l’intera Italia – il Sud come il Nord – ed aveva come motivazione principale il tentativo di rimediare ai robusti tagli ai finanziamenti del sistema universitario, che non sono, purtroppo, un’esclusiva di Mariastella Gelmini.
Lo chiamavano “il sistema dell’autonomia” e tutte le facoltà ci si buttarono a pesce. Chi stava a guardare rischiava di essere tagliato fuori da una ‘gold rush’ luccicante di pepite d’oro. Ed allora non si trovò in Senato accademico nessuno capace di dire: “Evitiamo di procedere ciascuno per conto proprio, evitiamo di fare alleanze con i politici locali cercando di scavalcare la facoltà vicina, cerchiamo di procedere in modo sistematico. Secondo quali parametri è opportuno scegliere un territorio, un determinato corso di laurea, e non altri? In quali condizioni funzioneranno questi corsi di laurea per quanto riguarda aule, laboratori, biblioteche, spazi per gli studenti, personale tecnico-amministrativo, attrezzature per la ricerca e – soprattutto – organico docente?”.
Ad aggravare la situazione si aggiunse la proliferazione degli Atenei. Anche se, in verità, non è stata opera dei professori, ma dei ministri e dei politici locali. Dal 2000 al 2005 le università italiane sono passate da 70 a 95. In quattro di quegli anni era ministra la Moratti, dello stesso schieramento politico dell’attuale ministra, che approvò la costituzione di non poche università private ad personam. La prospettiva della costituzione in Sicilia di un quarto Ateneo diventò una realtà con cui fare i conti e accrebbe la frenesia dei politici locali, mentre il problema della regolazione dello sviluppo territoriale del sistema universitario in ambito regionale non trovava da nessuna parte una cabina di regia.
Commettere errori è umano, ma perseverare nell’errore è diabolico. Ciò vale non solo per la classe politica che si muove intorno ai consorzi universitari, ma anche per l’ateneo. Non tutti i decentramenti, per fortuna, sono stati catastrofici. E gli studenti, ma anche i docenti, che si sono sobbarcati il ruolo di pionieri hanno sostenuto sacrifici pesanti. Si tratta adesso di compiere scelte responsabili per rafforzare il sistema universitario della Sicilia sud orientale, rinunciando alla chimera di un ateneo sotto ogni campanile e alla demagogia dell’università sotto casa come surrogato del diritto allo studio.
Agli uomini politici che s’improvvisano tribuni del popolo non possiamo fare a meno di consigliare che non è più l’ora di affidarsi agli slogans e che “su ciò che non si conosce sarebbe opportuno tacere” (diceva Wittgenstein). Alle facoltà tocca prendere decisioni responsabili elaborando proposte concrete. I quasi quattromila studenti iscritti nelle sedi di Ragusa e Siracusa non sono figli di un Dio minore. Sono studenti del Siculorum Gymnasium, a pieno titolo nostri colleghi.