Migranti, Ue rivaluta impegno dell’Italia negli hotspot Attivisti: «Raccolta impronte? Un fallimento generale»

Le cose per gli hotspot siciliani non vanno poi così male. Almeno per quanto riguarda la capacità di riconoscimento dei migranti. A sostenerlo è la commissione europea che oggi ha annunciato la decisione di archiviare i procedimenti di infrazione contro i governi di Italia e Grecia, in merito al presunto mancato rispetto del regolamento Eurodac. Ovvero quello che nel 2013, basandosi sull’omonima banca dati europea, è stato istituito per determinare le competenze di ogni singolo Stato nell’esame delle richieste di asilo. Il regolamento, entrato in vigore nel luglio 2015, ha preceduto l’introduzione dell’approccio hotspot nelle due nazioni di frontiera e si lega di fatto a quanto previsto dalla convenzione di Dublino. Secondo l’attuale normativa, i centri di identificazione dovrebbero raccogliere le impronte dei migranti entro 72 ore dal loro arrivo, per poi trasmetterle alla banca dati Eurodac. Tale procedura, sin dalle prime sperimentazioni, è stata oggetto di critiche da più fronti. A partire proprio dall’Unione europea, secondo cui gli hotspot italiani e greci non sarebbero stati capaci di assolvere adeguatamente i propri compiti.

A distanza di un anno, però, è la commissione europea a fare marcia indietro. «Dati i notevoli miglioramenti registrati nelle attività di rilevamento a partire dall’inizio del 2016, la Commissione è convinta che sia Grecia che Italia stiano rilevando le impronte digitali dei cittadini di paesi terzi conformemente al regolamento Eurodac e ha deciso di archiviare i procedimenti di infrazione», si legge in una nota. La promozione dell’Ue, tuttavia, non cancella le critiche che arrivano dalle associazioni che si battono per la tutela dei diritti dei migranti. Tra di esse, Borderline Sicilia che da tempo denuncia l’inadeguatezza del sistema hotspot. «Il regolamento di Dublino intrappola i richiedenti di asilo nei paesi di frontiera, perché determina che un migrante debba rimanere nella nazione in cui è arrivato – spiega l’avvocata Paola Ottaviano -. E se consideriamo che quasi sempre Italia e Grecia sono paesi di approdo, e non di destinazione, capiamo le storture insite nella normativa. Praticamente si imprigionano i migranti». 

A condizionare il giudizio sugli hotspot sono poi i risultati ottenuti dalla cosiddetta relocation, ovvero la procedura di redistribuzione dei migranti negli altri Stati europei. Un esperimento che, nato come contropartita nei confronti delle nazioni impegnate nel riconoscimento, secondo Ottaviano è stato un fallimento. «Non lo si può definire diversamente – continua -. I problemi erano evidenti sin dall’origine, a partire dalla decisione di ammettere nella relocation soltanto quei Paesi che, a livello statistico, ottengono il 75 per cento di riconoscimento delle richieste di protezione internazionale». Cifre che inevitabilmente hanno tagliato fuori tantissime nazioni – lasciando di fatto la possibilità di spostarsi soltanto a eritrei, siriani e iracheni – ma soprattutto fatto sì che i diritti dei singoli migranti venissero trattati alla luce di considerazioni che poco hanno a che fare con le persecuzioni. «Alcune nazioni extracomunitarie, come quelle dell’Africa Occidentale, sono considerate luoghi da cui partono soltanto migranti economici. Ma ciò è sbagliato – conclude Ottaviano – perché non si può decidere del diritto di asilo di una persona soltanto in base alla sua provenienza».


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