Una nostra redattrice ci racconta la sua esperienza da rappresentante di cosmetici ai tempi delluniversità. Della serie qualsiasi esperienza lavorativa è utile, anche quella che non fa proprio per te
Il trucco non è il mio mestiere
Tanto studio, pochi soldi: la vita dello studente universitario medio in quattro parole. E per rimediare che si fa? Si cerca il lavoretto part-time: ripetizioni, promoter, hostess congressuale, baby-sitter, dog-sitter, qualsiasicosarespiri-sitter. A chi scrive, ai tempi d’oro dell’università, è toccato fare anche la rappresentante di cosmetici-catalogo munita.
“Lavorare in autonomia con massima flessibilità in termini di orario e grandi potenzialità di crescita e guadagno”. E cosa si può volere di più dalla vita? Che sarà mai, mi sono detta. Timida non sono mai stata e sono una ragazza, quindi l’amore per i cosmetici doveva essere geneticamente dentro di me, bastava solo scavare. Ma avevo sottovalutato qualche particolare.
Primo: la propensione personale a questo tipo di lavoro. Bisogna essere socievoli e gentili, ma meglio ancora se si è cerimoniose e un po’ ipocrite. Capita a chi fa questo mestiere di dover mentire, mentire, mentire, in buona fede s’intende. Le menzogne delle rappresentanti di cosmetici non sono certo quelle dei falsi dietologi smascherati da Striscia la notizia. Al massimo il male più grande che si può causare è lo stupore per il colore dello smalto che non è proprio shocking violet ma solo tanto shocking e per quello del fondotinta che fa sembrare di cera ed evidenzia come non mai lo stacco viso-collo peggio che se si avesse la vitiligine. La vostra redattrice, purtroppo, non era brava a dissimulare e anche se non c’era niente di male a sforzarsi e dire qualche bugia – che cominciava quasi sempre con “ti starebbe benissimo” – la malattia chiamata sincerità, che ancora oggi mi affligge, a volte non mi dava via di scampo. Insomma, quando volevano comprare il glitter per il corpo color verde rame all’aroma di cioccolato io proprio non ci riuscivo a dire che l’avevo provato e quando dalla stampa del catalogo non si distingueva bene la differenza tra i colori cominciavo a sudare freddo.
Secondo: il rapporto con la clientela. Parliamoci chiaro, gli uomini saranno cambiati e oggi avranno pure un contatto diverso e diretto con l’antirughe, ma ai miei tempi i clienti erano solo donne e ancora mi viene difficile immaginare un uomo che ordina un dopobarba a pagina 36. Le clienti erano donne di tutte le età, forme, colori e dimensioni, ma più che il loro aspetto contava la propensione mentale a quel tipo di business. C’erano la “affezionata”, quella che non ti fa mai sentire una venditrice fallita perché qualcosina la compra sempre, la “sbadata-indecisa”, quella che non si ricorda il colore “preciso” di rossetto e la crema che ha già usato e con le quali si è trovata tanto bene, e che a volte al momento della consegna dei prodotti non si ricorda neanche più di averli ordinati e con la faccia stralunata si accinge a pagare mentre ti fa sentire indegna al pari di un estorsore, la “mai-contenta”, quella che qualsiasi cosa ordina non è mai come se l’aspettava dal catalogo, fosse anche un pettine, e la “che bello sono arrivati i prodotti, ma non ho tagli piccoli e quindi te li pago la prossima volta” (no comment). La cosa peggiore è beccare la cliente che le racchiude tutte, la “affezionata-sbadata-maicontenta” che qualcosina la compra sempre e non essendosi ricordata bene il colore e/o il nome esatto del prodotto è perennemente scontenta di quello che compra e quindi… Non paga mai.
Terzo: il confronto con le colleghe, ovvero le “rivali”. L’ingresso in questo mondo tutto creme e trattamenti mani, piedi e viso si fa attraverso una responsabile di zona che ti segue fino a quando non spicchi il volo. Da lei capita di incontrare altre fanciulle che fanno il tuo stesso percorso. La mia responsabile non era male, mi ricordava tanto la madre adottiva di Edward Mani di Forbice e mi motivava con discrezione, ma credo leggesse nei miei occhi l’inutilità del suo cortese entusiasmo. Le ragazze? Beh, ce n’erano di due tipi: quelle che “ho provato tutti i prodotti da pagina 1 a 67, inclusi quelli maschili tanto sono dedita al lavoro e ora li faccio usare tutti i giorni anche al mio papà” e quelle che Rimmel la canta De Gregori e Mascara gioca nel Catania. E quella ero io.
In realtà, per me la competizione con le altre non è stata sul campo, ma tutta psicologica. Anche il non essere competitiva non è il massimo se, come nel mio caso, hai una vicina di casa che ha avuto la tua stessa pensata. La mia vicina era così sempre in ordine, perfettamente truccata e competente che perfino io avrei comprato da lei, mi frenava solo il fatto che aveva 20 anni ma sembrava una bellissima donna di 38. In ogni caso, il fatto che nessuno del mio palazzo abbia mai saputo del mio passato di venditrice di cosmetici è indicativo del fatto che non avevo speranze. La mia carriera era già finita prima di iniziare. Non riuscivo a dire piccole bugie, avevo perciò strategie di marketing zero, ci rimettevo anche di tasca mia, avevo quindi guadagni quasi zero, e per di più mi sentivo inadeguata.
Eppure quell’esperienza fallimentare è stata importante. Mi ha fatto capire che non ho le doti per la vendita e l’adulazione, che un po’ di cerimonie senza esagerare si devono però saper fare e che l’ombretto mi sta bene, ma soprattutto che mai mai mai potrei fare la rappresentante/venditrice di nulla. Di questo ho anche avuto la riprova quella volta che la necessità mi portò a fare la rappresentante editoriale, e se il cliente donna è particolare, il cliente donna-insegnante può essere micidiale, ma questa è un’altra storia…