Step1 vi offre una recensione anomala del nuovo film di Massimo Venier sulla condizione dei precari, una generazione di luoghi comuni a caccia della felicità
Io, milleurista allo specchio
Eccoci qui, sedute nel buio di una sala cinematografica a vedere Generazione 1000 euro. Rigorosamente di martedì: costa meno. Io, precaria impiegata in un’azienda in odore di “riorganizzazione”, e la mia migliore amica, futura insegnante precaria. Ci mettiamo veramente poco a capire che i personaggi del film di Massimo Venier, ispirato all’omonimo libro di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa, siamo noi.
Io sono Matteo (Alessandro Tiberi), il protagonista, brillante laureato con la passione per la matematica che ne vorrebbe fare la sua professione, ma che non può, perché anche aspirare al dottorato è praticamente impossibile in questa Italia dove i “nipoti degli assessori e dei rettori” non finiscono mai. Sono io, con la sola differenza che sono femmina e che la mia passione è il giornalismo. Matteo si ritrova quindi a fare marketing in un’azienda, mentre quello in cui riesce meglio e per cui ha studiato per tutta la vita diventa un passatempo: diviso, così, tra la matematica, che come la filosofia è un modo per indagare il mistero profondo della vita, e il marketing, il mestiere del mentire, dell’apparenza, della vacuità…
La mia amica è Beatrice (Valentina Lodovini), giovane insegnante di greco e latino e nuova coinquilina di Matteo, con la sola differenza che la mia amica vuole insegnare una lingua viva, il francese. Lei segue la passione, ha scelto un lavoro sottovalutato e sottopagato, e non aspira alla cattedra, ma alle supplenze, perché anche le aspirazioni devono essere adeguate ai tempi e alle possibilità.
Poi c’è Angelica (Carolina Crescentini), la bella vice direttore marketing dell’azienda in cui lavora Matteo, sempre in ordine, misteriosa e ambiziosa, che sceglie di andare via, a Barcellona, dove la vita sembra meravigliosa e la strada per fare carriera e guadagnare sicuramente più facile. Io e la mia amica ne conosciamo di Angeliche e potremmo diventarlo anche noi, con la sola differenza che non assomigliamo alla Crescentini.
Il panico che ci assale vedendoci lì, sul grande schermo, nei corpi di bravi e giovani attori è, fortunatamente, placato dalla leggerezza e godibilità della commedia e dalle sue scene e battute realistiche e divertenti. Per fortuna c’è anche Francesco (Francesco Mandelli, il nongiovane di MTV), il coinquilino e migliore amico del protagonista, il suo grillo parlante, che gli ricorda chi è veramente nei momenti di crisi, quando la frustrazione causata dall’incertezza del suo futuro lavorativo, che si riflette inevitabilmente anche nell’instabilità sentimentale, rischia di travolgerlo. Trentenne specializzato in PlayStation ed esperto della settima arte che finisce col fare il proiezionista in un cinema, Francesco fa l’analisi delle loro vite in chiave cinematografica come fossero copioni di film, personificando la mossa geniale e ironica di Venier che fa così la metacritica alla sua stessa pellicola.
“Sono un luogo comune”, dice Matteo per presentarsi. E come dargli torto? In effetti il suo personaggio racchiude un’intera generazione di precari, nel lavoro e nei sentimenti, costretti a vivere con stipendi ridicoli fra mille ansie e problemi. “L’unica generazione in cui i figli stanno peggio dei padri”, come fa notare una puntuale osservazione del film, in cui i padri sono rappresentati dal commovente professore interpretato dal bravissimo Paolo Villaggio.
Come non riconoscersi in Matteo, che guardando i prezzi esagerati nei negozi comincia a imprecare a bassa voce: sapete che la parola che dico di più mentre guardo le vetrine non è “bello” ma “ladri”?
Come non provare rabbia da precario verso la realtà paradossale per cui in un’azienda che deve tagliare i costi si licenziano gli impiegati come in una crudele roulette russa, ma si permette di spendere 2000 euro in mezza giornata a un dirigente in trasferta?
Come non comprendere Matteo che si trova diviso tra la passione e la ragione, sia nel lavoro che nell’amore? Restare per tentare di fare ciò che gli piace con i sacrifici e le incertezze che comporta – come fa la genuina, passionale e spontanea Beatrice – o andare via, facendo magari un mestiere che non gli appartiene, ma senza correre il rischio di avere problemi di soldi e di rimanere senza un tetto sopra la testa o per sempre a casa dei genitori – come fa Angelica che insegue una carriera più stimolante e sicura?
Come non provare un lieve brivido nell’unico momento di tensione, per quanto un po’ romanzato, in cui il protagonista si ritrova sull’orlo del burrone a un passo dalla perdita della propria identità e dei propri sogni?
Come non rivedersi nei giovani precari del film, nel loro sentirsi sospesi, nel loro essere un enorme “non lo so”, “chissà”, “vedremo”, “speriamo”, comunque intenzionati a trovare una possibile via d’uscita da questa sospensione?
Siamo così intenti a cercare di sopravvivere, di riuscire a pagare l’affitto, a capire se un giorno potremo farcela da soli senza il terrore che da un momento all’altro dovremo tornare a casa dai genitori, che perdiamo di vista i nostri sogni, le nostre aspirazioni, le nostre passioni, alla ricerca del lavoro che ci dà più speranze di essere assunti o uno stipendio decente. Vedendo quest’opera sul precariato del regista di Chiedimi se sono felice viene da chiedersi appunto se è questo che ci darà la felicità… O magari è meglio non arrivare neanche alle 1000 euro al mese, ma fare un lavoro che ci piace e per cui siamo portati. Ecco, il dilemma della generazione dei luoghi comuni.