Intervista a Claudio Fava in occasione della presentazione del suo ultimo libro al Monastero dei Benedettini. «Cè una terra di mezzo, dove troppi rinunciano a fare il proprio dovere, favorendo Cosa Nostra» - Ecco chi sono 'I disarmati'
Antimafia, le occasioni mancate
Claudio Fava, europarlamentare, giornalista, sceneggiatore e scrittore, torna in libreria con un nuovo pamphlet: “I Disarmati” (edizioni Sperling&Kupfer). Step1 lo ha intervistato qualche giorno fa al Monastero dei Benedettini dove Fava ha presentato il suo libro insieme a due giovani giornalisti freelance: Antonio Condorelli, collaboratore della esplosiva inchiesta su Catania “I Vicerè”, e Giuseppe Scatà (U’ Cuntu, I Cordai).
Fava, partiamo dal titolo, ‘I Disarmati’. Chi sono e cosa c’è dietro questa definizione, apparentemente negativa?
«I disarmati non sono soltanto quelli che non hanno le armi, ma quelli che le hanno lasciate cadere per terra, quelli che hanno rinunciato ad usarle o che hanno scelto di non armarsi. In questo senso il libro è un racconto spietato sulle occasioni mancate: è il racconto dei vivi piuttosto che dei morti, un racconto necessario perché se riduciamo tutto a chi muore e a chi uccide non ci rendiamo conto che c’è una grande terra di mezzo, una terra di nessuno nella quale qualcuno ha accettato di rinunciare alle proprie ragioni, di guardare altrove. Siamo a questo punto perché qualcuno ha consegnato le armi e le ha barattate in cambio della carriera, di un po’ di benevolenza, di qualche privilegio, di un po’ d’interesse. Bisogna raccontare queste cose per potercele lasciare alle spalle e tornare ad armarci. E le armi sono quelle della parola, della parola che si fa gesto, urlo, bestemmia, denuncia e rigore dell’analisi».
Le voci dell’informazione a Catania ci sono, ma sono piccole e disgregate. Come possono queste diverse realtà costruire una rete ‘ben armata’?
«La rete cresce perché decidono di farla crescere, perché si fidano di questo strumento, perché le danno passione e attenzione. Non può essere un solo giornale stampato in mille copie che può avere duemila, tremila lettori. La rete deve essere una catena virtuale che punta a più infinito, cioè che può mettere insieme attenzione e risorse incredibili. Credo che questo possa accadere in Sicilia, in un tempo come questo avarissimo di punti di riferimento, di testimonianze e parole concrete. Altrove forse potrebbe essere una lettura secondaria, alternativa; qui non è alternativa, non è controinformazione. Oggi quello che si può fare in rete è informazione allo stato puro, cioè il racconto delle cose che nessuno vuole raccontare. E l’informazione, quando riesce ad arrivare dritta al cuore di qualcuno, produce già in sé un effetto valanga. Ogni lettore diventa alfabetizzato da quelle verità, da quelle storie e le racconta ad altri. È il meccanismo di Radio Aut di Peppino Impastato: un meccanismo che fa diventare uno strumento poverissimo una grande risorsa di cultura di massa».
Nel suo libro lei parla della nascita di AddioPizzo a Palermo grazie al coraggio di un gruppo di studenti universitari. Una realtà che nel capoluogo è oggi molto forte e ben organizzata. A Catania qualcosa si muove, ma anche da questo punto di vista la città etnea appare indietro. Perché?
«Perché a Catania non amiamo le provocazioni, chiediamo sempre il permesso, c’è un tono più pacato, più prudente. AddioPizzo è l’iniziativa di alcuni ragazzi che non hanno chiesto il permesso a nessuno, hanno stampato dei volantini con uno slogan ‘Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità’ e li hanno messi sulle saracinesche dei negozi, dove andavano messi. E hanno detto: ‘Pubblicheremo sul nostro sito i nomi di quelli che pagano, vi sputtaneremo, racconteremo le vostre menzogne’. Hanno cacciato i mercanti del tempio e l’hanno fatto con l’unica risorsa possibile, la verità. A Catania siamo diversi per tradizione e per pigrizia, le pigrizie degli adulti, di una generazione di padri che non ha trasmesso gli strumenti di una lotta civile. A Palermo dopo la morte di magistrati, poliziotti, uomini politici sono esplose esperienze straordinarie che hanno segnato la storia di quella città, mentre Catania digerisce tutto e forse ha bisogno di provocazioni ancora più rumorose».
Lei conosce bene il mercato editoriale catanese. È proprio vero che oggi come ieri non c’è spazio per un altro giornale oltre a ‘La Sicilia’?
«Questo è un alibi. A Catania c’è un enorme spazio per l’ informazione. Una città di quattrocentomila abitanti, di cui alcune decine di migliaia potenziali lettori attenti e oggi frustrati dal fatto che vorrebbero sapere e che non sanno, o sanno quello che il giornale vuole dar loro, e cioè i palinsesti dei cinema, i risultati delle partite del Catania… C’è un enorme spazio di mercato, di attenzione civile e democratica che non è stato riempito. È la stessa osservazione che nel dicembre 1982 ci sentimmo fare quando, con pochi soldi e molti debiti, decidemmo di pubblicare il primo numero dei Siciliani. Ci dissero ‘Siete pazzi, in questa città che spazio può avere un giornale come questo?’. Il primo numero andò esaurito in un’ora e ne facemmo otto ristampe, perché raccontavamo cose che altri neanche sillabavano a bassa voce. Lo spazio c’è, più che a Palermo dove ci sono le pagine di Repubblica, l’esperienza de L’Ora, un’esperienza giudiziaria diversa, con la Procura di Palermo che è stato e continua a essere un luogo che ha prodotto giustizia e raccolto verità. A Catania non esistono strumenti che permettano a questa città di indignarsi e di costruire attorno a questa indignazione altre scelte. Più spazio di questo!
».