Ecco s’avanza una strana teoria: “studente equivalente a tempo pieno”

Le dichiarazioni, rese da più parti, secondo cui l’istruzione universitaria e la ricerca non sarebbero, come si è sempre sostenuto, largamente sotto-finanziate, ma godrebbero addirittura di un trattamento di favore rispetto ad altri paesi a noi vicini, sono inizialmente state considerate come una boutade. Tutti gli indicatori forniti negli anni dall’OCSE hanno infatti sempre messo in rilievo il ruolo di fanalino di coda dell’Italia nel finanziamento all’istruzione universitaria e alla ricerca, così come il pessimo rapporto docenti/studenti.

Il colpo di teatro che ha consentito a qualche studioso di sostenere improvvisamente la tesi contraria dipende dall’uso del concetto di “studente equivalente a tempo pieno”, che consente di ricalcolare il numero effettivo di iscritti all’università come il numero di studenti teorici che concludano gli studi nella durata teoricamente prevista per uno studente iscritto a tempo pieno. Ciò ridimensionerebbe fortemente sia la spesa per studente sia il rapporto docenti/studenti indicati dall’OCSE.

Naturalmente questa soluzione è stata salutata con grande tripudio da quella parte del governo e del ceto politico che mirava a ridurre il finanziamento all’università. Oltre alle accuse già discusse e confutate (quello universitario è un sistema inefficiente e corrotto che deve eliminare gli sprechi prima di chiedere il ripristino del finanziamento abituale), quelle appena indicate (in realtà le università italiane sono meglio finanziate di quelle europee) forniscono un nuovo argomento apparentemente inattaccabile a sostegno dei tagli.

Nel quinto capitolo più avanti verranno indicati gli argomenti tecnici che portano a ritenere quello così effettuato un calcolo forse legittimo, ma che non consente di confrontare veramente la spesa italiana con quella degli altri paesi europei, come invece è possibile fare con altri metodi che verranno discussi. Questi portano a confermare in modo inequivocabile la posizione di fanalino di coda dell’Italia.

D’altro canto, in termini comparati non solo il sistema italiano è sotto-finanziato dalla spesa pubblica. Contrariamente a quanto spesso si sostiene, al sotto-finanziamento generale non contribuiscono tasse universitarie troppo basse, il cui livello risulta invece essere nella media europea. Certamente il livello dei contributi studenteschi può essere alzato a fronte di migliori prestazioni per il diritto allo studio che rendano l’accesso all’università socialmente più equo. Ma tutti i sistemi universitari europei (compreso – lo si dimentica spesso – quello inglese) sono sistemi prevalentemente pubblici e in nessun paese europeo è all’ordine del giorno l’idea di portare i livelli di contribuzione studentesca in linea con quelli americani, mediamente molto più alti.

Né si può pensare che i finanziamenti esterni, privati o derivanti da contratti, che risultano non così dissimili da quelli degli altri paesi europei, possano costituire un efficace surrogato a una ritirata dello stato dalla sua funzione di garantire all’università e alla ricerca di essere messe in grado di garantire all’economia della conoscenza il loro ruolo insostituibile. Anche prescindendo dai dati che verranno mostrati, la vera differenza rispetto agli altri paesi da noi esaminati – con l’eccezione forse della Spagna – è che per ragioni strutturali connesse al sistema produttivo italiano (ridotta dimensione d’impresa, presenza certo non preponderante dei settori ad alto valore aggiunto, ecc.) è improbabile che dal settore privato possano provenire sforzi aggiuntivi sufficienti a farci superare i cronici problemi di finanziamento, soprattutto se pensiamo alla nostra disomogeneità territoriale in campo industriale ed economico.

Per concludere, abbiamo visto che, nonostante alcune recenti polemiche che sostengono il contrario, il sistema universitario italiano è comparativamente meno finanziato di quello degli altri paesi avanzati. Ciò si traduce sia in minori risorse per studente, sia in un rapporto numerico tra docenti e studenti più alto.

La possibilità di migliorare questa situazione attraverso maggiori esborsi delle famiglie trova dei vincoli sia nel fatto che le tasse universitarie italiane non sono già oggi tra le più basse, sia, soprattutto, per la ragione che gli studenti italiani, come abbiamo visto, godono di un sostegno in termini di diritto allo studio assai inferiore a quello degli altri studenti europei. Risultano poi contenuti, questi sì, i proventi che derivano da attività contrattate (ricerca e didattica) e relativamente modeste le risorse assegnate su base competitiva. Ma non possiamo dimenticare che nella maggior parte degli altri paesi europei questi sono fondi di provenienza pubblica (si pensi ai casi olandese, spagnolo e tedesco); e che del resto in nessun paese, neppure negli Stati Uniti, nessuno ha mai potuto pensare di affidare al solo mercato i destini di un settore che tutti (a parole) continuano a definire strategico come quello dell’istruzione superiore e della ricerca di base.


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