L’università in ginocchio

Chissà se il 2008/09 sarà un anno accademico di passione. Da un lato i tagli ai finanziamenti statali operati dal Governo Berlusconi in questi primi mesi di legislatura metteranno sicuramente in ginocchio le attività universitarie. Dall’altro il mondo accademico ha patito, rispetto alle attese maturate al momento delle elezioni politiche del 2006, una grande delusione nei confronti del Governo Prodi e del centro-sinistra, anche oltre le reali responsabilità del Ministro Fabio Mussi. Non sembra quindi avere oggi molta voglia di credere ancora una volta nella politica, di qualunque segno. Se Walter Tocci, grande protagonista della riflessione politica su ricerca e università negli anni 2002-2006, ha intitolato l’ultimo suo libro “Politica della scienza?” con un significativo punto interrogativo finale, forse molti penserebbero altrettanto dubbiosamente: “Politica dell’università?”.
 
Una favorevole coincidenza potrebbe però rianimare il dibattito a partire da dati quantitativi affidabili piuttosto che da armamentari ideologici generici e ormai largamente indigesti. Il 9 settembre, lo stesso giorno in cui il PD con una conferenza stampa di Veltroni e Garavaglia lanciava la sua offensiva politica contro i provvedimenti su scuola e università varati dal Ministro Gelmini, l’OCSE presentava a Parigi il suo autorevole resoconto annuale sulla formazione nei 30 maggiori Paesi del mondo sotto il consueto titolo di “Education at a Glance”. Oltre cinquecento pagine di analisi professionalmente impeccabili e in stile molto pragmatico che chiunque può consultare sul web, zeppe di grafici e tabelle numeriche.
 
Il colpo d’occhio è purtroppo sconfortante per la formazione universitaria italiana, come ha notato Michele Salvati nell’editoriale del 15 settembre sul Corriere della Sera, lamentando giustamente una carenza di disegno strategico nelle prime scelte del Governo Berlusconi sull’università e il loro disancoramento dalla messe di informazioni e di analisi che pure è già a disposizione negli studi degli esperti del settore.
 
I dati OCSE mostrano impietosamente che la crisi dell’università italiana è strutturale e non congiunturale. Ha origini lontane ed è dunque insensato addebitarla ad una sola parte politica o affrontarla con ricette semplicistiche. Piuttosto sembra quasi miracoloso che questa stessa università abbia saputo continuare a offrire una formazione di buon livello medio con ottimi risultati nella fascia dei laureati più dotati (come mostra il successo di tanti laureati italiani all’estero), nonché una ricerca scientifica di livello internazionale in molti ambiti sia umanistici che scientifici. Ha fornito anche esempi, soprattutto negli anni ’90, di una flessibilità innovativa largamente misconosciuta, il tutto a prezzo di una disastrosa decadenza infrastrutturale media e di pesanti carichi di lavoro per buona parte dei migliori dipendenti universitari, docenti e non. 
 
Quattro indicatori OCSE scolpiscono plasticamente questa crisi. Si sente spesso affermare – normalmente da editorialisti che sono anche professori universitari, evidentemente poco avvezzi a documentarsi accuratamente sulla realtà in cui lavorano prima di scriverne – che in Italia si spende troppo per l’università.  Si tratta di un’affermazione sbagliata.
 
Se si misura la spesa totale per la formazione universitaria rispetto al PIL, cioè alla ricchezza nazionale, si vede (tabella B2.1 del rapporto OCSE) che il nostro Paese occupa ahimè l’ultimo posto (insieme alla Repubblica Slovacca) con un misero 0,9% a fronte di un valore medio dell’1,3% nei 19 Paesi europei dell’OCSE sino al valore massimo dell’1,7% di Danimarca e Finlandia. Per non parlare degli irraggiungibili valori di Corea (2,4%), Canada (2,6%) e USA (2,9%). In termini assoluti la differenza tra la media europea e il dato italiano corrisponde a circa 5,5 miliardi di euro mancanti sui bilanci delle università a fronte dei 7,4 miliardi dell’intero finanziamento ordinario statale annuo: una cifra colossale e dunque un ritardo incolmabile, almeno nel breve periodo. Né va meglio sotto il profilo dell’evoluzione nel tempo di questo parametro: nel 1995 sotto l’1% vi erano, oltre a Italia e Repubblica Slovacca, anche Repubblica Ceca, Grecia, Polonia, Portogallo ma questi Paesi negli ultimi dieci anni ci hanno lasciato indietro quanto ad aumento degli investimenti nell’università.
 
Si potrebbe pensare che sia la mano pubblica italiana quella che spende troppo in università. Non è così. Se si considera la quota dell’intera spesa pubblica nazionale che è destinata all’università, anche in questo caso (tabella B4.1) l’Italia occupa tristemente e da sola l’ultima posizione con l’1,6% quando tutti gli altri Paesi europei vantano percentuali superiori al 2% fino addirittura al 4,5% della Danimarca, con una media europea del 2,8%.
 
Si potrebbe allora supporre che sia alta la spesa italiana per l’università in rapporto al numero degli studenti. Nemmeno questo è vero. Facendo una classifica in dollari (equivalenti) annui spesi per studente, l’Italia con 8.026 dollari (tabella B1.1a) occupa in Europa il tredicesimo posto su diciotto. La seguono, nell’ordine, solo Repubblica Ceca, Ungheria, Grecia, Polonia e Repubblica Slovacca. C’è da notare che il dodicesimo posto è occupato dal Portogallo con 8.787 dollari ma che gli altri undici Paesi sono tutti sopra i 10.000 dollari fino al massimo di 15.946 dollari della Svezia, con una media di 10.474 dollari.
 
Si potrebbe infine supporre che siano gli studenti universitari e i laureati ad essere troppi in Italia. Sarebbe l’ennesimo errore. Il rapporto OCSE (tabella A1.1a) mostra che ancora una volta l’Italia è ultima in Europa per percentuale di laureati nella fascia di popolazione 25-64 anni: 13% contro una media del 24%, un valore massimo del 35% della Danimarca e gli irraggiungibili USA (38%), Giappone (41%) e Canada (47%). In termini assoluti rispetto alla media europea mancano all’appello circa 3,5 milioni di laureati italiani.
 
Va detto che la tanto bistrattata riforma che ha introdotto nel 2001 in Italia i tre livelli di laurea, come solennemente concordato a Bologna nel 1999 da tutti i Paesi europei, sta dando qualche buon risultato iniziale: nel 2006 hanno conseguito la laurea (primo titolo universitario) circa il 39% delle classi di età interessate a fronte del 19% del 2000, il che ci colloca finalmente in buona posizione in Europa, alle spalle solamente di Finlandia, Polonia, Danimarca, Olanda, Norvegia e Svezia (Tabella A3.2).
 
Qual è stata la risposta di Berlusconi-Tremonti-Gelmini a questo stato di fatto? Innanzitutto quella di diminuire pesantemente il già basso investimento statale nelle università. Quell’ultimo posto che l’OCSE documenta è destinato a rimanere tale, anzi il divario con gli altri Paesi inesorabilmente aumenterà.
 
E’ facile quanto preoccupante documentarlo. Per finanziare l’abolizione dell’ICI sulla prima casa delle famiglie abbienti, il decreto legge n. 93/08 ha sottratto ogni anno 467 milioni di euro al fondo statale di finanziamento ordinario delle università. Il taglio in sé e per sé corrisponde a circa il 6% del fondo totale. Ma se si riflette al fatto che sullo stesso fondo pesano per l’87% gli stipendi del personale di ruolo, ovviamente incomprimibili perché fissati dallo Stato, il taglio si applica esclusivamente al rimanente 13% e quindi ha come effetto di dover ridurre circa della metà tutte le spese di funzionamento degli atenei (utenze, pulizie, manutenzioni etc.), ovvero di dover chiedere alle famiglie degli studenti di provvedere con un aumento delle tasse universitarie.
 
Subito dopo il decreto legge n. 112/08 ha bloccato il turn over del personale universitario (solo il 20% delle risorse che si liberano con i pensionamenti potrà essere utilizzata per le assunzioni, ovvero un nuovo assunto per ogni cinque dipendenti che si pensionano) ed ha provveduto a ridurre di conseguenza il fondo di cifre crescenti dai 64 milioni del 2009 sino ai 455 milioni del 2013, decretando anche la fine delle speranze di tanti giovani e ben preparati dottori di ricerca di poter dedicarsi alla ricerca universitaria in Italia.
 
Se a questi tagli si sommano altri di minore entità stabiliti nei medesimi provvedimenti, si ottiene che il fondo di finanziamento ordinario è destinato a scendere dai 7,4 miliardi attuali ai 6,4 previsti del 2013, cioè un taglio di oltre il 13%, con un picco nel 2010 quando il taglio in un solo anno sarà del 10,3%. L’effetto cumulativo è ancora più impressionante. Nel quinquennio 2009-2013 rispetto ai 37,5 miliardi previsti per l’università dal Governo Prodi si scenderà ai 33,7 del Governo Berlusconi: un colossale taglio globale di quasi 4 miliardi di cui nessun euro è stato reinvestito nel settore.
 
Oltre ai tagli finanziari gli unici atti governativi di rilievo sull’università sono stati due che, peraltro, non vanno certo nella direzione di migliorare il funzionamento del sistema universitario.
 
Il rinvio sine die dell’attivazione dell’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca messa a punto dal Ministero Mussi impedirà il decollo del circolo virtuoso tra autonomia, responsabilità, valutazione e porrà ancora una volta l’Italia ai margini dell’Europa escludendola dalla rete europea delle agenzie nazionali indipendenti di valutazione.
 
E’ stata poi data facoltà alle università, a condizioni per nulla chiare, di trasformarsi in fondazioni di diritto privato, quasi che il mero cambiamento di forma giuridica possa implicare miglioramenti di funzionamento. Infatti le università godono già di un’autonomia gestionale ampia quanto, o addirittura più, di quella delle fondazioni proposte da Tremonti-Gelmini. Peraltro non posseggono patrimoni sui cui proventi da usi esterni poter fondare il loro funzionamento, come sarebbe obbligatorio per una fondazione, quindi continuerebbero a dover godere di cospicui finanziamenti statali.
 
Last but not least il Governo italiano sembra aver dimenticato di aver sottoscritto con tutti gli altri governi europei le dichiarazioni di Praga (2001) e di Berlino (2003) in cui si afferma solennemente che la formazione universitario “è e deve rimanere un bene pubblico ed una pubblica responsabilità”. Dal canto suo il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha approvato il 16 maggio 2007 la raccomandazione n. 6 in cui si afferma che la responsabilità pubblica della formazione universitaria e della ricerca è parte integrale del patrimonio accademico europeo e pietra angolare dell’European Higher Education Area.
 
Insomma poco pragmatismo, poca Europa, pochi giovani, tanta ideologia. Eppure la nostra università, ganglio fondamentale di una società/economia della conoscenza, ha bisogno estremo di pragmatismo, di Europa, di giovani ma soprattutto di una strategia politica. Una strategia che si basi solidamente sull’esistente (ad esempio i dati OCSE) ma che sappia anche produrre idee e scelte concrete sul sistema universitario che vogliamo veder funzionare in Italia nei prossimi decenni, non solo nei prossimi mesi, fissando precise priorità. Se non vogliamo finire davvero fuori dall’Europa, maggioranza e opposizione, ciascuna per la sua parte di responsabilità, devono aprire un dibattito serio e documentato su questi temi in Parlamento e nel Paese.

(articolo apparso su Europa del 16 settembre 2008)

* responsabile nazionale Università del Partito Democratico


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