Quattro anni e sei mesi per l'ex ufficiale del Ros, tre anni e sei mesi per il colonnello. Sono le richieste fatte oggi dal procuratore generale Scarpinato per la mancata cattura di Provenzano. Un colpo di scena «per ridare al processo quella vita autonoma che, renderlo una costola del processo trattativa, gli aveva tolto»
Mori-Obinu, rinuncia all’aggravante mafiosa Procura chiede condanna per favoreggiamento
La mancata perquisizione del covo di Totò Riina, gli arresti sfumati di Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano. Tre momenti clou della lotta a Cosa Nostra che hanno per protagonista l’ex ufficiale del Ros dei carabinieri, Mario Mori. Secondo la procura generale di Palermo c’è un filo rosso che lega questi passi falsi: l’infedeltà di Mori che avrebbe agito «per motivi extraistituzionali». Quali? Il procuratore Roberto Scarpinato non va oltre, si ferma qui. Ed è questa la grande novità che emerge dalla requisitoria odierna al processo di appello che vede imputati l’ex ufficiale e il suo fidato collaboratore, l’ex colonnello Mario Obinu, entrambi assolti in primo grado. Adesso Scarpinato sceglie di rinunciare all’aggravante mafiosa, decide di non ricondurre la mancata cattura di Provenzano all’interno della trattativa Stato-mafia. E opta per contestare il favoreggiamento aggravato solo dall’avere agito violando i doveri connessi alla loro funzione.
Per Mori, definito «un soggetto dalla doppia personalità e dalla natura anfibia», la richiesta di condanna è di quattro anni e sei mesi, per Obinu di tre anni e sei mesi. «Tenteremo di semplificare – dice Scarpinato – e di ridare al processo quella vita autonoma che, renderlo una costola del processo trattativa, gli aveva tolto». Per il procuratore generale la prova del reato di favoreggiamento prescinde dalla necessità di dimostrare l’esistenza di un movente. «La legge non lo richiede», precisa.
Nella requisitoria, il procuratore generale che rappresenta l’accusa insieme a Luigi Patronaggio, passa in rassegna gli episodi in cui Mori è protagonista. A cominciare dalla mancata perquisizione al covo di Totò Riina. È il 15 gennaio del 1993 quando il capo dei capi viene arrestato dal capitano Ultimo, Sergio De Caprio, nella sua villa di via Bernini a Palermo. «La Procura di Palermo – spiega Scarpinato – venne bloccata da Mori mentre si accingeva a fare la perquisizione nella villa abitata da anni dalla famiglia di Riina. Il potenziale investigativo contenuto in quella casa era enorme, basti pensare che, al momento del suo arresto, furono trovati dei pizzini, e uno di quei pizzini si rivelò prezioso per le indagini su Michele Aiello, che anni dopo sarà arrestato e condannato per mafia. Se con la scarse informazioni contenute nei pizzini fu possibile fare nascere quelle indagini, vi lascio immaginare quali sterminate informazioni ci fossero nella casa di Rina. Ebbene – continua – c’è la certezza che quella perquisizione fu bloccata perché fu assicurato ai vertici della Procura di allora che fosse possibile perseguire un altro obiettivo, cioè l’arresto di altri esponenti di Cosa nostra. Invece, dopo poche ore venne abbandonato l’obiettivo, senza dare nessuna spiegazione. L’abitazione di Riina venne completamente svuotata. I suoi complici ebbero anche il tempo di imbiancare le pareti per eliminare tracce di dna, e tanto era il materiale che non si accorsero che dietro un muro c’era una fotografia». Il procuratore definisce quindi «improponibili» le giustificazioni date dal generale Mori. «La sottrazione di questi documenti – aggiunge Scarpinato – a opera di funzionari infedeli ha numerosi precedenti nella storia giudiziaria del nostro Paese, basti pensare all’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa o alla strage di via D’Amelio, dove qualcuno ebbe la lucidità di andare nella macchina ancora in fiamme di Borsellino e di prendere la borsa per poi rimetterla lì».
Pochi mesi dopo, nell’aprile del 1993, l’allora latitante Nitto Santapaola sfugge all’arresto mentre si trova a Terme Vigliatore, nel Messinese. A far scappare il boss catanese, secondo la Procura, è un’eclatante azione del Ros in una villa vicina al covo. «Santapaola – racconta l’accusa – viene intercettato mentre parla con esponenti della criminalità mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto all’interno di un locale». L’informazione arriva subito a Mori, che in quel momento si trova a Roma, tramite il maresciallo della sezione anticrimine di Messina Giuseppe Scibilia. L’ex ufficiale risponde che «avrebbe provveduto». Come risulta dall’agenda dello stesso Mori, il giorno successivo si reca a Catania. Ma il blitz contro il capomafia sfuma nel momento in cui, lo stesso 6 aprile ’93, si verifica un fatto imprevisto, che fa saltare l’operazione. «Il capitano Ultimo – ricostruisce Scarpinato – mentre si trovava casualmente in transito nella zona dove era stato localizzato il giorno prima Santapaola, con altri militari del Ros aveva individuato un uomo, scambiato per il latitante Pietro Aglieri», poi identificato invece in un giovane incensurato, Fortunato Giacomo Imbesi, figlio di un imprenditore della zona. Anche per questo episodio, la procura parla di «finalità extra istituzionali».
La requisitoria arriva quindi al mancato arresto di Bernardo Provenzano, per cui Mori e Obinu sono sotto processo. «C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista – attacca Scarpinato – dal periodo delle stragi fino ai tempi in cui si svolge la vicenda oggetto di questo processo. Se si esaminano tutte queste vicende, in una visione unitaria e complessiva, ci si rende conto che esiste una costante, e cioè che l’imputato effettua una manipolazione del potere istituzionale, ma anche una alterazione delle procedure legali, e successivamente sarà costretto a dare spiegazioni non plausibili».