Salvatore Lo Piparo, dal 2013 affiliato alla famiglia di Bagheria e oggi collaboratore di giustizia, racconta agli investigatori i retroscena del colpo messo a segno nel novembre del 2013 ai danni di una ditta di trasporti nel trapanese. I locali, un tempo di proprietà dei mafiosi di Brancaccio e oggi in amministrazione giudiziaria, ricadevano nella giurisdizione della famiglia di Castelvetrano. Per questo era necessario trovare un aggancio sul posto
Blitz Eden 2, così i mafiosi organizzavano la rapina «Per rubare allo Stato non si chiede autorizzazione»
«Per rubare allo Stato non si chiede l’autorizzazione. Cioè se devo andare a fare una rapina alla posta o allo Stat… alla banca, non devo chiedere nessuna autorizzazione a nessun capo famiglia». A spiegare ai magistrati il codice di Cosa nostra è Salvatore Lo Piparo, oggi collaboratore di giustizia e un tempo affiliato alla famiglia mafiosa di Bagheria. Della sua investitura si erano occupati Giorgio Provenzano, ritenuto dagli investigatori esponente di spicco del mandamento di Bagheria e finito ieri in manette nell’ambito dell’indagine stralcio del blitz Eden2, e Pietro Flamia. Una scelta influenzata dalle sue parentele eccellenti. Il nonno di Lo Piparo, Luigi Ficano, infatti, aveva fatto parte dell’organizzazione mafiosa. «Tu fai parte di una buona famiglia – gli avevano spiegato – tuo nonno era u’ zu Luigi Ficano di Bagheria, una persona conosciuta e stimata, il sangue è buono non ci tradire mai, non fare il nostro nome. Da questo momento in poi tu fai parte di questa nostra famiglia».
Invece Lo Piparo ha parlato e agli investigatori ha ricostruito le fasi preparatorie della rapina messa a segno nel novembre del 2013 al deposito di una ditta di spedizioni di Campobello di Mazara nel trapanese. Un colpo che aveva fruttato 100mila euro tra denaro in contante e merce, un assalto armato ideato dai mafiosi di Bagheria e autorizzato da quelli di Castelvetrano. Ieri i carabinieri del Ros e quelli del Comando provinciale di Trapani hanno fatto scattare le manette ai polsi di quattro persone ritenute gli organizzatori e gli ideatori di quella rapina. Un assalto armato che ha confermato la forza dell’asse Palermo-Trapani tra affari comuni e parentele eccellenti.
«L’unica autorizzazione che non si chiede quando si fa la rapina in un paese – racconta Lo Piparo nel settembre del 2014 ai magistrati -, anche se io vado a fare una rapina ad esempio a Trapani, se sono Posta e se sono banche, però che non siano banche che magari l’edificio è di proprietà di qualcuno, di qualche persona là, per rubare allo Stato non si chiede autorizzazione». Così 15 giorni prima del colpo, servito a rimpinguare le casse di Cosa nostra e a finanziare la latitanza dell’ultima primula rossa, Matteo Messina Denaro, Lo Piparo fu contattato da alcuni rapinatori palermitani di corso dei Mille. «Era venuto da me Ciro Carrello, Ruggero (Battaglia, ndr) e Mimmo (Amari, ndr) per chiedere se io conoscessi qualcuno nella zona di Trapani per far sì di creare un aggancio». Serviva un ponte perché l’azienda da colpire, un tempo di proprietà dei mafiosi di Brancaccio e oggi in amministrazione giudiziaria, ricadeva nel territorio di competenza dei mafiosi di Castelvetrano.
Della questione Lo Piparo investì Giorgio Provenzano, raggiunto oggi dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere, che nel giro di una settimana trovò la persona giusta. «Dopo circa una settimana – racconta ancora il collaboratore di giustizia – mi convoca Ruggero e mi fa: “Domani ti porto dei giubbottini. E mi ha portato sei giubbottini vuoti, neri, dei gilet. Io questi gilet li ho portati in un negozio di Bagheria, li ho lasciati là e pagai 90 euro per fargli mettere la scritta Polizia, davanti e dietro e se non mi sbaglio c’era pure un timbro sulla parte alta». Fu proprio Provenzano, secondo i pentiti, a finanziare il colpo occupandosi di recuperare le pettorine della Polizia usate per l’assalto e coinvolgere la famiglia di Castelvetrano, tramite Francesco Guttadauro.
Perché il commando che entrò in azione all’alba del 4 novembre del 2013 a Campobello di Mazara nel magazzino della AG Trasporti srl finse un blitz della Polizia. In otto armati e con il volto coperto, di cui sette con chiara inflessione dialettale palermitana, raggiunsero contrada Birri Baida a bordo di due auto con tanto di lampeggiante. Una volta scesi dalle vetture legarono e immobilizzarono i diciassette dipendenti, rinchiudendoli in una stanza. E mentre uno di loro armato controllava che tutto procedesse secondo i piani, alcuni impiegati furono costretti a caricare la merce appena arrivata da Palermo su un autoarticolato con semirimorchio. Dopo circa due ore, con il camion pieno della refurtiva, i rapinatori si allontanarono a bordo delle due auto, date alle fiamme poco distante.
La rapina fruttò 17mila euro in contanti e 600 colli di merce. Un bottino, che fu diviso tra le famiglie mafiose di Bagheria e di Castelvetrano. «Parte del bottino è andato alla famiglia di qua… di là e alla famiglia di qua. Questo è poco ma sicuro. Di qua a Giorgio Provenzano circa 2mila euro e a loro non so quanto. Mi ha chiamato Provenzano e dopo un po’ di giorni mi diede 400 euro». A confermare la spartizione del denaro è anche un secondo pentito, Benito Morsicato. Ascoltato dai magistrati spiega che l’accordo fu raggiunto prima del colpo. Il 10 per cento andava alla famiglia di Castelvetrano e la spartizione del denaro avvenne in un ristorante di Bagheria a pochi giorni dal Natale.